George Orwell recensisce il Mein Kampf di Adolf Hitler

George Orwell, per The New English Weekly, 21 marzo 1940

È un segno della velocità con cui gli eventi si stanno muovendo che l'edizione non espurgata del Mein Kampf di Hurst e Blackett, pubblicata solo un anno fa*, sia rivista con un angolo favorevole a Hitler. L'ovvia intenzione della prefazione e delle note del traduttore è quella di ridimensionare la ferocia del libro e presentare Hitler in una luce il più mite possibile. Infatti, a quei tempi, Hitler era ancora rispettabile. Aveva schiacciato il movimento operaio tedesco, e, perciò, le classi dei possidenti erano disposte a perdonargli praticamente qualunque cosa. Sia la Destra che la Sinistra si univano nella nozione, molto superficiale, che il nazionalsocialismo non fosse altro che una versione del conservatorismo.

mein kampf red cross.jpg

Poi, improvvisamente, emerse che Hitler non era, alla fin fine, rispettabile. Uno dei risultati fu che l'edizione di Hurst e Blackett fu ristampata con una nuova copertina, che spiegava come tutti i profitti sarebbero stati dedicati alla Croce Rossa. Ciononostante, semplicemente basandosi sul contenuto del Mein Kampf, è difficile credere che un qualunque vero cambiamento abbia avuto luogo nelle mire e nelle opinioni di Hitler. Quando si paragonano le sue parole di un anno fa con quelle di quidici anni prima, una cosa che colpisce è la rigidità della sua mente, la maniera in cui la sua visione del mondo non si sviluppa. È la visione fissa di un monomaniaco e non è probabile che venga influenzata molto dalle temporanee manovre della politica del potere. Probabilmente, nella mente di Hitler, il patto russo-tedesco non rappresenta altro che un'alterazione nella tabella di marcia. Il piano stabilito nel Mein Kampf era di spezzare la Russia per prima, implicando l'intenzione di spezzare l'Inghilterra in seguito. Ora, come è emerso, si deve occupare dell'Inghilterra per prima, perché la Russia, fra le due, è stata quella più facilmente corrotta. Ma il turno della Russia arriverà quando l'Inghilterra uscirà di scena -- così, senza dubbio, la vede Hitler. Se poi le cose si svilupperanno in questa maniera, è ovviamente un'altra questione.

Immaginiamoci che il programma di Hitler possa essere messo in atto. Quello che lui si figura, fra cent'anni da oggi, è uno Stato continuo di 250 milioni di tedeschi con grande abbondanza di "spazio vitale" (cioè esteso fino all'Afghanistan o dintorni), un orribile impero senza cervello in cui, fondamentalmente, non succede mai nulla, a parte l'addestramento dei giovani per la guerra e l'allevamento senza fine di carne fresca per i cannoni. Com'è stato possibile che sia riuscito a imporre questa visione mostruosa? È facile dire che, a un certo punto della sua carriera, venne finanziato dai magnati dell'industria pesante, che vedevano in lui l'uomo che avrebbe spezzato i socialisti e i comunisti. Non lo avrebbero sostenuto, tuttavia, se, con le sue parole, non avesse allora già messo in vita un grande movimento. Di nuovo, la situazione in Germania, con i suoi sette milioni di disoccupati, era ovviamente a favore dei demagoghi. Ma Hitler non non avrebbe potuto riuscire contro i suoi molti rivali, se non fosse stato per il fascino della sua personalità, che si può avvertire perfino attraverso la goffa scrittura del Mein Kampf, e che è senza dubbio irresistibile quando si ascoltano i suoi discorsi... Il fatto è che c'è qualcosa di profondamente attraente in lui. Lo si sente di nuovo, guardando le sue fotografie -- e io raccomando specialmente la fotografia all'inizio dell'edizione di Hurst e Blackett, che mostra Hitler nei sui tempi lontani di camicia bruna. È una faccia patetica, da cane bastonato, la faccia di un uomo che patisce torti intollerabili. In una maniera alquanto più virile, riproduce l'espressione di innumerevoli rappresentazioni di Cristo crocefisso, e non c'è dubbio che è così che Hitler vede se stesso. La causa iniziale, personale, del suo risentimento contro l'universo si può solo cercare di indovinare; ma, in ogni caso, il risentimento è qui. È il martire, la vittima, Prometeo incatenato alla roccia, l'eroe che sacrifica se stesso e combatte da solo contro circostanze insormontabili. Se stesse uccidendo un topo, saprebbe come farlo sembrare un drago. Si sente, come con Napoleone, che sta combattendo contro il destino, che non può vincere, e che, tuttavia, in qualche maniera, se lo meriterebbe. Il fascino di una posa del genere è ovviamente enorme; la metà dei film che si vedono sfruttano un tema di questo tipo.

Hitler 1939 Murphy Translation Hurst and Blackett

Inoltre, ha afferrato la falsità della visione edonistica della vita. Quasi tutto il pensiero occidentale dall'ultima guerra, senza dubbio tutto il pensiero "progressista", ha assunto tacitamente che gli esseri umani non desiderino nulla, a parte agio, sicurezza e mancanza di dolore. In una visione della vita del genere, non c'è spazio, per esempio, per il patriottismo e per le virtù militari. Il socialista che trova i sui figli a giocare con i soldatini di solito si preoccupa, ma non è mai in grado di pensare a un sostituto per i soldatini di latta; dei pacifisti di latta, per qualche motivo, non possono andar bene. Hitler, poiché nella sua mente senza gioia lo sente con una forza eccezionale, sa che gli esseri umani non vogliono soltanto comodità, sicurezza, poche ore al lavoro, igiene, il controllo delle nascite e, in generale, buon senso; vogliono anche, almeno in modo intermittente, la lotta e il sacrificio, per non parlare poi di tamburi e bandiere e parate alle proprie lealtà. Comunque siano come teorie economiche, il fascismo e nazismo sono psicologicalmente molto più sensate di una qualunque concezione edonistica della vita. Lo stesso è probabilmente vero per la visione militarizzata che ha Stalin del socialismo. Tutti e tre i grandi dittatori hanno accresciuto il proprio potere imponendo carichi intollerabili ai loro popoli. Laddove il socialismo, e perfino il capitalismo, in una maniera più riluttante, hanno detto al popolo "vi offro di godervela", Hitler ha detto loro "vi offro lotta, pericolo e morte", e come risultato, un'intera nazione si getta ai suoi piedi. Forse, più avanti, se ne stancheranno e cambieranno opinione, come alla fine dell'ultima guerra. Dopo alcuni anni di macello e di morte per fame, "la massima felicità per il numero massimo"** è un buono slogan, ma, in questo momento, "meglio una fine orribile che un orrore senza fine" è il favorito. Ora che stiamo combattendo contro l'uomo che l'ha coniato, non dobbiamo sottovalutare il suo fascino emotivo.***

Note del traduttore

* Il libro è stato dunque pubblicato mesi prima dell'entrata in guerra di Hitler contro la Polonia e della conseguente dichiarazione di guerra di Francia e Gran Bretagna contro la Germania.

** Frase del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham (1748-1832). Bentham identificava il bene appunto nelle misure appropriate all'ottenimento della massima felicità da parte del numero massimo di persone.

*** In realtà, la frase non è strettamente un’invenzione di Hitler, ma un modo di dire tedesco già attestato nell'ottocento, derivato da un versetto del Salmo 73. Hitler elabora una variante di questa frase per rappresentare quelle che erano, a suo avviso, le due scelte della Germania dopo l'occupazione franco-belga della Ruhr nel 1923: un terrore senza fine nel tollerare l'occupazione, o un momento terribile nel terminarla attraverso un riarmo che avrebbe consentito alla Germania una posizione migliore per trattare. L’allora cancelliere Cuno optò per la resistenza passiva tramite lo sciopero dei lavoratori della Ruhr, sprezzantemente definita da Hitler una terza via. Cuno fu costretto a dimettersi dopo pochi mesi proprio a causa di un’ondata di scioperi, indirizzati però contro il suo governo.