Nel racconto, insomma, il linguaggio assume in pieno la sua funzione simbolica, rifiutando il supporto materiale del gioco. Si tratta forse di un rapporto col reale meno ricco di quanto non sia il gioco vero e proprio? Dovremmo pensare che il gioco è più concretamente formativo, nella sua fondamentale ambiguità di gioco-lavoro, mentre il racconto, come fantasticheria verbale, sarebbe una forma di evasione? Penso proprio di no. Il racconto, al contrario, mi appare una fase più avanzata di dominio sul reale, un rapporto più libero con i materiali. È un momento di riflessione che va al di là del gioco. È una forma di razionalizzazione dell’esperienza: un avvio all’astrazione. (p. 126)
Il mondo si può guardare a altezza d'uomo, ma anche dall'alto di una nuvola (con gli aeroplani è facile). Nella realtà si può entrare dalla porta principale o infilarvisi – è più divertente – da un finestrino. (p. 28)
Il pretesto per questo libro è una frase di Novalis: “Se avessimo una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l'arte di inventare”. Ed il suo sottotitolo, in effetti, è Introduzione all’arte di inventare storie. È uno strumento per «chi ritiene che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione»; ed è un’opera, nella sua semplicità, complessa. È un libro semplice, perché Rodari evita di approfondire troppo i singoli argomenti, se non nella parte finale. È complesso, perché gli argomenti sono tanti e, fra loro, tutti collegati.
Quello che è importante dire fin da subito è che questo non è semplicemente un corso su come si stendano racconti fantastici. Questo è un libro sul rapporto fra l’adulto e il bambino, in cui l’adulto si pone al servizio del bambino e ne stimola la fantasia. La narrazione, infatti, non è una realtà unilaterale: anche la fantasia dell’ascoltatore si agita mentre ascolta, interpreta, rappresenta e immagina – e da tutto questo nasce lo stimolo alla creazione. Questa è la questione principale del libro: i bambini non sono degli ascoltatori passivi, ma, attraverso un processo di sostituzione, vivono la favola al tempo stesso come personaggi e coautori. Se ne hanno la possibilità, creeranno volentieri in modo autonomo. Dunque, bisogna fornirne loro l’occasione.
Messa in chiara l’ottica da cui si deve inquadrare l’opera, proseguiamo verso gli argomenti trattativi. Spiegata la genesi del libro, Rodari illustra gli elementi fondamentali di una storia fantastica e offre dei suggerimenti pratici per risolvere alcuni problemi nella sua composizione: quali personaggi scegliere? Qual è il loro mondo? Cosa deve avvenire? Ci sono simmetrie da rispettare nello scrivere una storia e, nella fattispecie, una favola? Quanto conta il caso? Qui inizia a fare capolino la linguistica, utilizzata per ricercare perché e secondo quali criteri i concetti vengano selezionati e appaiati.
Dopo poco, comunque, risulta evidente che questa parte istruttiva non ha lo scopo di creare il cantastorie perfetto, ma di dare al cantafiabe uno spartito su cui fare improvvisare i bambini. Il fine del libro, infatti, non è generare un adulto che sia semplicemente in grado di intrattenere i più piccoli, ma che sappia dare loro un mezzo per esprimere e sviluppare la propria fantasia. E dunque abbiamo una serie di attività per lasciare che siano i bambini ad inventare: il teatro e il teatrino, i giochi per raccontare assieme ai compagni di classe, lo sviluppo libero di un tema… La classe è la dimensione corale di questi esercizi, dove il bambino, ora ascoltatore, ora attore, ora autore insieme agli altri, impara a esporre proposte proprie e a sviluppare quelle altrui.
I racconti prodotti da questa azione creatrice possono dire molto sul bambino. Come leggere una fiaba raccontata da un bimbo di cinque anni? Come intravedere il processo di selezione che ha fatto sì che scegliesse proprio quegli elementi? Che immagine ha in quel momento il bambino della realtà e in che modo il linguaggio – come l’ha compreso finora, con le sue varie metafore ancora aperte ad una interpretazione letterale – influisce su di essa? Rodari comprende nel libro anche qualche esempio metodologico di interpretazione, in modo da rispondere a queste domande. Di fatto, si tratterà di applicare ulteriormente i principi compositivi della fiaba esposti in precedenza, ma qui sfruttati come chiave per scomporla ed analizzarla.
Il cardine su cui tutto il libro ruota è però, come già detto, l’analisi del ruolo dell’adulto verso il bambino, e il più importante fra gli adulti agli occhi del piccolo non potrà ovviamente essere altri che il genitore. Rodari raccomanda ai genitori di raccontare le favole ai propri bambini e addirittura propone scherzosamente di rendere questa pratica obbligatoria per legge. Le motivazioni però non sono legate semplicemente allo sviluppo della creatività. Per il bambino è importante che il genitore racconti storie, perché, in quel momento, il genitore è lì, con il bambino, e non c’è altro che il bambino desideri di più. La favola può anche essere soltanto un pretesto del bambino per avere accanto il genitore, il vero oggetto del suo interesse. Questo elemento si trova in parecchie delle favole proposte: il bambino separato dai genitori ha, nella fiaba, il solo obiettivo di riunirsi a loro ed è dalla loro mancanza che nasce il suo sgomento, una sensazione facilmente compresa e condivisa dai piccoli ascoltatori.
Nella categoria dell’adulto sono compresi anche gli insegnanti. Rodari critica l’abitudine di imporre una visione autoritaria sull’interpretazione di un testo, quando è possibile comprendere molto meglio cosa abbiano effettivamente capito i ragazzi lasciandoli parlare. Dal mio punto di vista, questa è però una pratica che funziona fino ad un certo punto. L’esempio portato da Rodari è l’interpretazione di una fiaba: una capra, stanca di vivere imprigionata nel recinto del padrone, scappa sul monte, dove viene il lupo però la uccide. Gli studenti interpretano la fiaba come un monito contro chi disobbedisce. Rodari nota che i ragazzi hanno dato questa interpretazione perché è la più adeguata alle loro esperienze, riferendosi al fatto che un testo non viene interpretato secondo le intenzioni dell’autore, ma secondo le condizioni del ricevente. In realtà, continua Rodari, è facile che la favola contenesse una esaltazione del titanismo della capra, che, affamata di libertà, in suo nome soffre e muore da martire. Gli alunni, questo, non l’hanno avvertito. Il problema è che, se l’insegnante non insegna un metodo interpretativo, gli studenti non impareranno ad usarlo e resteranno vincolati alla propria percezione immediata, fraintendendo ogni testo scritto secondo una sensibilità diversa dalla loro.
[Compio ora un excursus su questa problema; chi volesse continuare a leggere la recensione può saltare al prossimo capoverso. In realtà, il fraintendimento dei testi letterari non è un guaio legato alla sola vita di classe. Nella ricerca sulla letteratura antica, greca e latina, il malinteso è all’ordine del giorno. Posso fare due esempi. Il primo è la rappresentazione della morte di Seneca negli Annali di Tacito. Si tratta di una scena altamente drammatica, dove Seneca, dopo che Nerone gli ha imposto il suicidio, soffre aspramente a causa dei mezzi insufficienti con cui cerca di causarsi la morte, senza cessare di parlare di filosofia, fra gli amici affranti e accompagnato dalla moglie, che vorrebbe andarsene con lui; riesce infine a morire soffocato dal vapore. Ogni commentatore ha dato una propria interpretazione dell’opinione che Tacito voleva esprimere su Seneca attraverso questa descrizione della sua morte: secondo qualcuno, Seneca si mostra assurdamente teatrale e logorroico, e quindi questa scena deve contenere una critica nei suoi confronti; secondo altri, invece, Seneca muore in conformità con la propria vita, cioè come un saggio filosofo, mostrando coraggio; secondo altri ancora, Seneca muore come merita e viene finalmente raggiunto dal castigo per le sue efferatezze. È palese che Tacito dovesse avere una sola intenzione, che noi lettori moderni, a causa della distanza della nostra sensibilità dalla sua, non solo non riusciamo a percepire, ma che ci immaginiamo ognuno in modo diverso a seconda del nostro personale rapporto coi personaggi. (Un riassunto del problema si trova presso: Tac. Ann. 15.60.2ff.: Die Sterbeszene Senecas, in Seneca in den Annales von Tacitus. Inaugural-Dissertation zur Erlangung der Doktorwurde der Philosophischen Fakultat der Rheinischen Friedrich-Wilhelms-Universitat zu Bonn, vorgelegt von MICHAEL BRINKMANN, Bonn, 2002, pp. 91-137). Il secondo esempio è l’interpretazione del significato del Satyricon. Certo, qui la difficoltà è dovuta a vari fattori, come la perdita della grandissima parte dell’opera e l’impossibilità di individuare chiaramente i riferimenti ad altri testi, ormai andati perduti, contenuti in essa; il dato di fatto però è che anche qui le interpretazioni sono volate da ogni lato, partendo da quella dell’opera moralista, per arrivare a quella parodistica, fino a quella (certamente errata) secondo cui il Satyricon sarebbe nato come una lista dei vizi sessuali di Nerone. In questi casi il contesto è andato fisicamente perso; ma non insegnare ad interpretare le opere sulla base del contesto letterario del loro periodo è come slegarle da esso. In pratica, il significato originario cessa di essere percepibile e va perduto.]
Tornando a Rodari, leggendo il libro troveremo anche una critica all’abitudine di far fare i riassunti. Visto che l’incapacità a riassumere è oggi considerata una delle pecche gravi degli studenti italiani, Rodari non ne esce benissimo. Occorre comunque dire che pretendere di giudicare l’attività di un insegnante da alcuni accenni su un argomento che, per il libro, è secondario, non può che essere rischioso, specialmente considerando che si tratta di una Grammatica della fantasia: un testo finalizzato a rendere libera e fruttuosa l’immaginazione di un bambino e a dargli le occasioni di usarla. Pretendere esercizi di puro apprendimento da un volume del genere sarebbe come cercare fondamenti di etica in un manuale di marketing.
Per quanto riguarda lo stile, i due brani che ho riportato rappresentano i momenti fondamentali che si incontreranno spesso nella lettura. Uno è di tipo tecnico-scientifico; pur mantenendosi immediatamente comprensibile, spiega i processi linguistici e psicologici legati alla creazione e alla comprensione del racconto. In questa parte, Rodari si appoggia spesso a letteratura più o meno specialistica. Il secondo momento è quello più propriamente letterario-descrittivo. Spesso si ha a che fare con scheletri di racconti, in cui però brilla già quel lampo di fantasia che, ancora adesso, mi fa ricordare quanto di Rodari ho letto da bambino. Sono esempi scelti bene e il desiderio di completarli o provare a crearne di propri segue automatico.
Arriviamo ora al giudizio propriamente inteso. Il libro si legge gradevolmente, ma soprattutto è una grande ispirazione per chi ha a che fare con i bambini, a vari livelli; è assolutamente consigliato per i genitori ed è un valido supporto per chi voglia muovere i primi passi nella narrativa per bambini. Per i professionisti dell’insegnamento, invece, rischia di rivelarsi piuttosto limitato. La letteratura che riporta e su cui a tratti si appoggia era, al momento dell’uscita, estremamente aggiornata, ma oggi è vecchia di quarant’anni. Piuttosto che come libro sui bambini, ai maestri lo consiglio come libro su Rodari, visto che di certo ogni insegnante avrà a che fare con i suoi testi e che il libro può fornire uno strumento in più per comprendere il suo stile e la sua produzione.
Versione recensita:
GIANNI RODARI, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie. Giulio Einaudi editore, Torino 1973 (prima edizione). VII + 195 pagine, Lire 2400.
Oggi in vendita presso lo stesso editore a € 12,39.
Valutazione:
Perfetto per i genitori, ispiratore per chi si dedica ai bambini, scientificamente non più aggiornato, ma letterariamente intramontato.