Katia Trifirò è docente a contratto di “Scrittura scenica” e cultrice di Letteratura italiana contemporanea e Discipline dello spettacolo presso l’Università degli Studi di Messina.
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Il caso Buzzati
rientra nella categoria novecentesca di scrittori italiani ammaliati dal mondo
della scena ma privi, tuttavia, di una netta collocazione teatrale.[1] Le
ragioni, verificabili in una rilettura prospettica del repertorio drammaturgico
lungo buona parte del secolo, si possono ricondurre in larga misura all’assenza
di una vera e propria tradizione istituzionalizzata nel nostro teatro,
caratterizzato «dapprima dal dominio del grande attore e poi dal dominio dei
grandi registi» (Alonge - Malara 2001: 689), indiscussi signori della scena
che «emarginano, da sempre, la funzione dello scrittore» (ibid.), in
virtù di un mestiere di cui quest’ultimo non sarebbe detentore. Escluso dalle
politiche produttive degli Stabili e della regia, ovvero le due istituzioni che
maggiormente condizionano la scena italiana del secondo dopoguerra, l’autore
vivente subisce una «progressiva rarefazione, per non dire cancellazione»
(Puppa 2003: 160), sino al paradosso di una polarità controversa e mai risolta,
se non nei pochi casi – esemplare, nella sua ambiguità, quello di Pirandello –
in cui lo scrittore si sia fatto uomo di teatro tout‑court,
ricucendo la frattura tra scrittura ed esecuzione, o, meglio, tra «scrittura a
tavolino e “scrittura scenica”» (Taviani 1995: 181).
La drammaturgia
buzzatiana, e la sua ricezione critica, va dunque considerata alla luce di
questa irriducibile dialettica, rinvigorita oggi dal sondaggio critico in corso
sulla presenza sempre più consistente di nuovi autori[2].
Comprendere il teatro buzzatiano implica la necessità di misurarsi con i vuoti
di un repertorio frustrato dalla mancata integrazione fra i testi e la loro
trasposizione sulla scena e con l’ombra, piuttosto, di una delusione toccata in
sorte a quanti, tra romanzieri e poeti, si sono accostati al teatro nel
tentativo di tradurvi gli stessi temi di cui era nutrita la loro inspirazione
letteraria ma rimanendo, negli esiti, degli ospiti marginali e per lo più privi
della possibilità di una costante verifica scenica.
Scrittore per
il teatro e librettista d’opera[3], ma
anche bozzettista, scenografo e costumista di allestimenti scaligeri,[4]
autore di cronache teatrali e, tra il 1949 e il 1960, critico musicale per il Corriere
della Sera, Buzzati rivela, in questa multiforme attività che lo lega al
palcoscenico, ma anche ai suoi protagonisti, ai suoi mezzi e ai suoi riti, una
fascinazione destinata ad occupare un posto di rilievo nel suo universo
creativo. «L’incanto misterioso del teatro» (Buzzati 1949: 4), che l’autore
inietta, ad esempio, nella trama di Paura alla Scala, lasciandolo
riecheggiare in alcune scene del romanzo autobiografico Un amore (Laide,
la protagonista femminile, è una ballerina della Scala), non lo ripaga,
tuttavia, con un successo pari alle aspettative. Sebbene egli riconoscesse che
il lavorare per il teatro poco si adattava alle sue capacità di narratore, non
mancava di confessare che nessun tipo di successo letterario poteva dare
altrettanta soddisfazione: «[Il teatro] È la cosa che massimamente desidererei
[…] ed è la cosa dove non sono riuscito» (Panafieu 1973: 181). L’aspirazione,
sempre vagheggiata, di ottenere un riconoscimento completo del proprio ruolo di
autore teatrale è per Buzzati all’origine di una lunga fase di sperimentazione
drammaturgica, durata ben ventiquattro anni, a riprova di una infatuazione
tutt’altro che passeggera. Tale è infatti il tempo che separa l’esordio di Piccola
passeggiata, atto unico del ’42, e la commedia La fine del borghese,
con cui, nel 1966, si conclude una parabola di «sconfitte teatrali» (ibid.)
alle quali egli si era ormai abituato, come non si preoccupa di nascondere, pur
con una certa amarezza.
Lavorando come bozzettista al Gioco delle carte di Stravisnkij (nella foto), Buzzati conosce la ballerina da cui nasce il personaggio di Laide in Un amore.(N.d.R.)
Tra le
molteplici sfaccettature di questo composito corpus drammaturgico, formato
da diciassette testi, è la narrativa, che in Buzzati trova una formula ideale
nei racconti, destinati ad essere, «con la loro densa brevità e concisione
fulminante, la misura esatta e caratterizzante del suo scrivere» (Gaffuri 1991:
68), a configurarsi quale fonte privilegiata di riduzioni teatrali. Fortemente
connotati dall’esasperazione di «un senso di angoscia, di rischio, di pericolo
e di raccapriccio» (Cecchi 1958: 135) sempre riconoscibile, i racconti tendono
a divenire, in una fittissima rete di rimandi interni all’intera opera
buzzatiana, oggetto di performances testuali che, in chiave di variazione sul
tema, trasformano una storia preesistente nelle formule espressive del codice
scenico. Parafrasando ciò che Marco De Marinis osserva a proposito di
Pirandello, analizzandone il passaggio dalla novella al dramma, avviene anche
in Buzzati una continua osmosi tra narrativo e drammatico, a testimonianza del
fatto che «le differenze fra le due forme non si situano sul piano della
struttura profonda ma sono legate, invece, a differenti specificazioni
discorsive ed enunciazionali di un nucleo tematico e di una macrostruttura
dello stesso tipo» (De Marinis 2011: 103).
Da questo punto
di vista, il primo elemento su cui vale la pena soffermarsi è la partecipazione
determinante della drammaturgia buzzatiana, esito di una suggestione ben più
ampia della sola traduzione scenica di episodi narrativi, alla definizione di
un tratto fantastico nella descrizione della realtà e dei suoi oggetti.
Ampliamente indagato dalla critica[5], esso
è pertinente alle caratteristiche dell’intera produzione, individuate
retrospettivamente dallo stesso autore nei termini di «una notevole fantasia»
(Panafieu 1973: 232), in cerca di dell’approdo «in forma umana» (ibid.).
«Il teatro è una droga» (ibid.: 184) dice Buzzati, «il teatro è una cosa
infernale, il teatro mette l’uomo in una situazione completamente diversa dalla
vita normale. Ed è per questo che è affascinante. Quando entri nel mondo del
teatro, entri nella favola, entri nella fantasia, entri nel mito, entri nella
droga» (ibid.). Favola, fantasia, mito, droga: termini che, scelti
dall’autore per esprimere un trasporto inesorabile verso la scena, dichiarano
contemporaneamente quella condizione alterata della percezione carpita anche
dalla sua scrittura narrativa e dal segno pittorico, testimoni, per il loro
carattere unitario (Laganà Gion 1982), di un identico stato allucinatorio. Nei
mezzi propri del teatro, dove al massimo grado l’elemento visivo si configura
come strutturale e non semplicemente complementare, è allora possibile
rinvenire numerosi esempi di «quella “contaminazione” tra parola e immagine che
diventerà un suo tratto distintivo» (Viganò 2006: 144), all’insegna di
un’intercomunicabilità tra diversi linguaggi espressivi di cui Buzzati fu
convinto assertore[6],
contaminando generi e soluzioni tecniche in un complesso gioco di citazioni e
autocitazioni. Di un significativo processo di alterazione fantastica dei dati
della realtà, secondo il ‘metodo’ buzzatiano che trasfigura appigli
cronachistici e quotidiani nelle trame stranianti di un mistero insondabile, è
prova il racconto Sette piani, da cui deriva il materiale scenico della
commedia più conosciuta e analizzata dalla critica, Un caso clinico.
Allestita nel ’53 al Piccolo di Milano da Giorgio Strehler, il quale vi scorge
«un acuto senso di Dolore e di Morte mescolati insieme, in un amarognolo
Grottesco abbastanza inedito per i palcoscenici (e per la letteratura)
italiani» (1980: 670), la pièce riproduce «l’inevitabile meccanicità di
quella discesa ad inferos» (Buzzati 2006 [1982]: 11) centrale
nell’ipotesto narrativo, riscritto con una dilatazione complessiva di temi,
ambienti, personaggi. Due anni dopo, il testo teatrale viene adattato in
francese, con il titolo Un cas intéressant, da Albert Camus, con il
quale Buzzati intrattiene un rapporto epistolare (Viganò 2006: 238-243), e va
in scena a Parigi al Théâtre La Bruyère, con la regia di Georges Vitaly. A
partire da questo testo, apologo atroce sull’alienazione e il nulla, Martin
Esslin introduce Buzzati, unico tra gli italiani insieme a Ezio D’Errico, nel
canone del Teatro dell’Assurdo,[7]
citando, tra gli altri suoi lavori, Un verme al ministero (Esslin 1961).
E proprio in terra di Francia appare lo studio più ampio sulla drammaturgia
buzzatiana, pubblicato sul primo dei «Cahiers Dino Buzzati» (1977) a firma di
Panafieu, dal titolo emblematico Thanatopraxis, che allude alla
centralità della topica della morte in tutto il teatro dell’autore bellunese,
intrecciandosi con una modalità polimorfica e pervasiva all’intera produzione.
Prima di Un
caso clinico, oltre a Piccola passeggiata, adattamento del racconto Ombra
del Sud, Buzzati aveva scritto La rivolta contro i poveri (1946)
anch’esso messo in scena da Strehler, nello stesso anno, e Il mantello,
atto unico allestito solo nel 1960[8] ma
adattato già otto anni prima dal racconto omonimo, contenuto, come Sette
piani e Ombra del Sud, nella raccolta del ’42 I sette messaggeri,
a conferma di una connessione fortissima, al di là del dato cronologico, tra la
narrativa e la drammaturgia nell’esperienza teatrale buzzatiana, che attinge
alle risorse in continua simbiosi di una pratica artistica sincretica e
multiforme:
Offrendo
ambienti e personaggi alla trasposizione scenica, questa prima raccolta, che
accompagna l’esordio di Buzzati nei panni di autore teatrale, si configura come
un vero e proprio laboratorio alchemico di variazioni drammaturgiche innestate
su motivi ricorrenti. È quanto emerge analizzando un caso in particolare,
ovvero le due versioni, narrativa e teatrale, del Mantello – da cui è
tratto anche l’omonimo libretto d’opera –, nutrite della medesima fascinazione
della morte, che innerva di sé, come accennato, Sette piani e Un
caso clinico, nonché la coppia Ombra del sud/Piccola passeggiata,
sebbene con diverse modalità discorsive. La centralità del tema in tutta
l’opera buzzatiana, che, pur nella cifra costante di un suo inafferrabile
enigma, lo declina secondo uno sventagliamento molteplice di soluzioni, ci
conduce alla nozione di intertestualità interna, alla quale ricorrere anche
nella disamina della pratica adattativa messa in campo dall’autore. In questo
primo gruppo di testi considerati, l’ossessione spettrale appare infatti come
il Leitmotif costante di trovate narrativo/sceniche che si affidano alla
sfera semantica del buio per descrivere, attraverso un intreccio di volta in
volta differenziato, la relazione tra la morte e la sua vittima, in un
cortocircuito tra la concretezza terrena e l’ultra-naturale (in)visibile,
incarnato in ombra silenziosa o in voce senza corpo. L’adattamento teatrale Il
mantello, sul quale intendiamo soffermarci, interpreta questa suggestione
con l’espediente del revenant, mantenendo inalterata la fabula del
racconto, in cui Giovanni, un giovane soldato, ucciso in battaglia, torna a
casa per una breve visita alla madre, atteso, fuori dalla porta, dalla morte
che lo ha già ghermito e gli concede questa ultima, illusoria, apparizione tra
i vivi.
Alla brevità
del racconto, concentrato in pochissime pagine sul rapporto madre/figlio, si
sostituisce, nell’atto unico che ne deriva, una dilatazione diegetica, giocata
su una coralità di personaggi e sulla scomposizione dell’azione principale in
micro-narrazioni centrifughe. L’episodio del giovane soldato che, prima di
congedarsi dal mondo dei vivi, ai quali non appartiene più, torna a casa per
dire addio definitivamente alla madre e a quel luogo che lei aveva custodito
nella sua attesa, fatto di intimità casalinga e piccole premure, è inserito in
un racconto scenico esteso a comprendere, entro le maglie del codice
drammaturgico, una pluralità di temi appena evocati, o del tutto assenti, nel
precedente novellistico. Ci troviamo di fronte, utilizzando una categoria
jakobsoniana, ad un esempio di traduzione intersemiotica (Jakobson 1985: 57)
che, in una operazione di autoadattamento, riscrive il testo in vista del suo
mutato contesto ricettivo, affidandosi alle risorse creative geneticamente
connesse alla scena. Seppure si tratti di una riscrittura che utilizza lo stesso
sistema di segni verbali, all’interno della stessa lingua, l’esito
drammaturgico contiene tuttavia le potenzialità, linguistiche e visive, tipiche
del testo teatrale, modalizzato su uno specifico meccanismo generatore di
senso. L’adattamento del testo narrativo di partenza, così, non solo lascia
emergere da quest’ultimo nuovi significati sino ad allora latenti, ma si
presenta, nella sostanza, come la messa in variazione di un sistema semiotico
precedente su un altro.
Verificando
questa ipotesi metodologica sui due testi del Mantello presi in esame,
scopriamo immediatamente la diversa struttura discorsiva della narrazione e
della drammaturgia. Mentre la figura del soldato morto, che compare
improvvisamente sulla soglia, dà l’avvio al racconto, disseminato in partenza
di elementi mortiferi, «più o meno fantastici, più o meno impalpabili, più o
meno ambigui» (Giannetto 1996: 118), quali la giornata grigia e il volo delle
cornacchie, nel dramma il suo arrivo è sapientemente preparato da un crescendo
di tensione, attraverso l’indugio sulla situazione iniziale di attesa, che
l’ipotesto narrativo, condensandola nell’aggettivo “interminabile”, non ha
bisogno di descrivere:
Costruito su un
incipit favolistico, ripreso in chiusura con un movimento circolare, sullo
stato di attesa presaga della madre e sui segnali metaforici che anticipano lo
strano ritorno – lo sguardo insistente verso la strada, la voce del vento,
l’apparizione inaspettata di una giovane ragazza, Marietta, con un incongruo
cappotto militare sulle spalle –, il dramma si apre, invece, con la visione di
un quieto quadretto familiare, descritto in didascalia: «Rita sta cucendo,
seduta nella stanza di ingresso; nell’altra la signora Anna, sua madre, dà
lezione a tre bambini seduti al tavolo davanti a lei» (Buzzati 2006: 384).
Un interno domestico ci offre, nella scena iniziale, la visione di uno dei tre
piccoli scolari intento a leggere una fiaba: ma, dietro l’apparente normalità,
lo squarcio straniante interviene immediato con la comparsa di spie testuali
come “presentimento”, “sogno” e, soprattutto, quel “giubbetto insanguinato”
(simbolo lugubre del mantello) che, nella storia raccontata dal bambino,
fa piangere “tre giorni e tre notti” la principessa Leonora, addolorata per la
notizia del figlio “assalito dai briganti e trucidato” durante la caccia. Della
medesima funzione perturbante di cui, in un orizzonte fantastico, vengono
caricati gli oggetti di uso comune (Bonifazi 1982), come il giubbetto, si
riveste il cappotto da rammendare, di proprietà del colonello, che Marietta
porta sulle spalle quando entra improvvisamente in casa: caldo, di panno fine,
con la sua bottoniera per le medaglie – significativamente vuota –, è assunto
in contrasto semantico con l’abbigliamento del povero soldato che sta per
arrivare in scena, pallido, coperto di polvere e attanagliato da un freddo
inestinguibile, chiari indizi della sua pertinenza al regno della morte. La
funzione del mantello, “simbolo dell’impossibilità di rimanere” (Siddel 2006:
153), come più avanti, quella del ritratto, è in questo senso assimilabile al
ruolo che gli oggetti inanimati giocano nella vasta regione della letteratura
sul soprannaturale, ai confini «del rovesciamento fra reale e immaginario»
(Fusillo 2011: 77). In quanto dispositivo che replica una alterità inquietante,
il vestito esalta la tensione simbolica e allegorica della quale è investito,
e, al tempo stesso, si anima attraverso continue proiezioni psichiche, con un
processo narrativo affine a quello descritto da Gallinaro a proposito del
mantello di Drogo, «che pende floscio sulle spalle o è mosso in belle pose non
tanto dal vento, quanto piuttosto dalla vibrazione della speranza di chi lo
indossa» (2007: 120).
Cancellate le
pause di silenzio e le reticenze che, nel racconto, scarnificavano la pudica
delicatezza del rapporto tra la madre e il figlio, quasi inverando, «su una
scoperta vena di sentimentalismo, la complicità, ancora ambigua o inespressa,
tra Corte e la madre di Un caso clinico» (Buzzati 2006: 14), nell’atto
unico, l’incontro chiassoso ed esuberante di Giovanni con la madre (e con Rita
e Marietta, le altre donne presenti in casa) rivela subito un netto cambiamento
di registro:
GIOVANNI (compare
sulla soglia, con una strana luce. Ha il berretto militare, un mantello scuro
con un lembo gettato sulle spalle, il volto pallido è affilato, le scarpe
bianche di polvere. Non deve avere nulla di macabro ma dà l’impressione di
essere svuotato dalla vita; i movimenti incerti e fragili come di certi vecchi)
Mamma!...Rita!...
ANNA (ansimando) Tu!
Benedetto! (si lancia ad abbracciarlo, subito imitata da Rita) Lo
sapevo! Lo sapevo! Ti aspettavo, io…Sapevo io che dovevi tornare!
GIOVANNI Mamma!
Mamma! (Non sa dire altro per la commozione. Avanza alcuni passi nella
stanza, si guarda le scarpe impolverate, sorride come scusandosi) Oh,
scusami, sai, mi dimentico sempre di pulirmi…
ANNA (raggiante e
scherzosa) Il solito, il solito, mai che si ricordi! Su su, fatti vedere
come sei bello…Giovanni, Giovanni, ci hai fatto penare sai?...Che lunga
storia…sembrava non dovesse mai finire…Ma sei pallido, Giovanni…Come sei
pallido…Devi essere un po’ stanco…Hai bisogno di un buon sonno…Chissà poi che
porcherie vi davano da mangiare…E chissà quanta strada hai fatto. […]
n (Buzzati 2006: 388-389)
Nel racconto
sono i segni allusivi di sventura, che aprono il testo e ritornano
ossessivamente (il pallore e la sfinitezza di Giovanni, la sua mestizia, i
movimenti lenti e faticosi, ma, soprattutto, la pena incomprensibile e acuta
della madre), a suggerire, per mezzo di un accumulo progressivo di senso, lo
svelamento dell’enigma che regge la narrazione, costruita sulla fenomenologia
consueta di «un avvenimento enorme, imprevedibile, misterioso» (Mignone 1981:
37), preparato da una «inquietudine inesplicabile e a volte immotivata» (ibid.)
e chiarito definitivamente solo nel finale. Con un procedimento opposto, il
dramma svela la chiave di lettura della vicenda rappresentata con
l’introduzione, inedita rispetto al racconto, delle figure dei nonni defunti,
presenze medianiche comunicanti con il soldato, unico personaggio che,
condividendone lo statuto, può udirli. La loro comparsa in scena è annunciata,
in didascalia, come parvenza che, circonfusa di pallida luce, improvvisamente
emerge dalla penombra. Immobili, e “simbolici più che fantomatici”, possono
essere “due vecchi ritratti i quali di volta in volta si animano in volto e
parlano”, “con una specie di automatismo poetico”, in un’alternanza tra le
parole dell’uomo e quelle della donna, che si esprime “con voce dolce e
semplice” nei punti segnalati graficamente dal corsivo:
I VECCHI […]
Giovanni, tu vuoi sapere? Siamo i tuoi vecchi sepolti.
Uomo, donna:
bisnonno, bisnonna.
[…]
I VECCHI Giovanni, perché sei
tornato? Anche a noi piaceva la casa, le cose buone da mangiare, e
stare al fuoco la sera, e il letto caldo e cantare quando la valle era
nera, e dall’inquieto cuore si spandeva l’amore…Ma noi non siamo
tornati, nessuno è tornato di noi, da migliaia di anni. Da migliaia d’anni.
Tu il primo oggi, Giovanni.
GIOVANNI (guardando
i vecchi, confuso) Ma…voi…
MARIETTA Con chi
parli, Giovanni? Sei così strano.
GIOVANNI (riprendendosi)
Niente…Pensavo…
n (Buzzati 2006: 392-393)
Questa opposta
modalità di organizzazione adattativa dei materiali narrativi conferma quanto
rileva Maurizio Grande sulla struttura logica del dramma che, essendo spaziale
e non temporale, obbedisce a intersezioni compositive dell’azione e non a linee
evolutive per le quali, come avviene nel racconto, è l’ordine addizionale dei
fatti a garantire l’attivazione del significato: «La struttura spaziale del
dramma poggia sulla comparizione del personaggio in scena e sull’effetto-‐‑presenza che ha il suo agire per mezzo della
parola e del gesto implicito» (Grande 2005: 97). E, ancora: «L’azione
drammatica consiste nella soluzione di un quesito, e l’intreccio drammatico non
è altro che l’architettura delle sue componenti» (ibid.: 98). La ricerca
di questo equilibrio, come Buzzati sostiene alla fine di un lungo apprendistato
teatrale, nella Prefazione all’edizione in volume della Fine del
borghese (1968), si compie comprendendo il diverso ritmo dell'ʹevento teatrale, che non può sopportare,
pena la noia degli spettatori e l’insuccesso, nessun rallentamento, anche momentaneo, e
meno ancora quelle pause descrittive e sognanti che in un romanzo, invece,
trovano adeguata collocazione. Il solo impiego della parola agita, privata
delle risorse dell’affabulazione, affida alla visualizzazione scenica il
compito di incarnare (o disincarnare, come avviene con Il mantello) i
personaggi, liberati dal tempo lungo e stratificato della narrazione. È
l’autore a descrivere, con piena consapevolezza della pratica drammaturgica, il
doppio movimento di autodelimitazione e rinnovata demiurgia che presiede alla
costruzione scenica dell’azione: «[…] in teatro molti, non dico espedienti, ma
mezzi letterari non sono concessi. La descrizione non è concessa. Certo uno la
può usare, ma solo per un breve momento; guai se insiste. Le considerazioni non
sono concesse. Le divagazioni non lo sono. Tutto deve essere esemplificato ed
espresso in azione […]» (Panafieu 1973:179-189).
Il colore
emotivo della scrittura, virato, come nell’ipotesto che lo ha generato,
nell’area del soprannaturale, in cui insistono ripetute scelte lessicali, è
prodotto invece dalle precise notazioni cromatiche e luministiche che,
contenute nelle didascalie, scandiscono la composizione figurativa del dramma.
Quella iniziale, in particolare, con cui l’autore affida al “gusto del regista”
il successivo passaggio alla forma dello spettacolo, combina il mutamento dalla
luce alle tenebre tramite l’espediente dell’‘ombra’ che, emanazione
dell’invisibile personaggio, ovvero la morte, in attesa del soldato, si
proietta immediatamente sulla scena, cominciando “a dondolare lentamente su e
giù”, quasi come “un gigantesco e silenzioso pendolo oscillante dinanzi al
sole”. Se nel racconto la morte è presente come una figura “tutta intabarrata”
che dà “una sensazione di nero”, causando nella madre, che la scorge dalla
finestra, il presagio di pena confermato dalla separazione definitiva dal
figlio nel finale, qui è visualizzata tramite l’identificazione con un’alta, e
quasi metafisica, carica militare, mantenendo tuttavia inalterata la simbologia
legata all’oscurità:
GIOVANNI […] È un ufficiale. Un
capitano di Stato Maggiore credo, uno importante…Non so neanch’io perché sia
stato così buono…
[…]
I VECCHI Porta il
grado di capitano ma basta che lui passi vicino e i signori colonnelli
balbettano, i generali si fanno bianchi, perfino le loro eccellenze,
cariche di medaglie, non appena l’ha visto, chiedono misericordia a Cristo. E i
grandi condottieri salutano sull’attenti se la sua nera ombra passa sulla
bandiera. Eppure a te vuole bene, per te cammina su e giù, e si impolvera
gli stivali per te, lui più forte dei re, lui grande, innamorato di te,
povero soldato. […]
n (Buzzati 2006: 395-396)
L’elemento fisico della polvere e quello cromatico
sono gli unici a rimanere alterati nella trascrizione scenica del dramma, che
non perde neppure quella patina di pathos associato all’infrazione
concessa dalla morte alle regole ferree dell’oltretomba, come se l’autore
avesse voluto quasi umanizzare di pietà filiale l’entità nera che accompagna il
giovane soldato nel suo ultimo ritorno:
Nel passaggio
dal racconto al dramma, in riferimento alle strategie di scrittura, è
interessante osservare come i dispositivi messi in atto nell’atto unico
esaltino più decisamente l’elemento spiritico e occulto che, nel racconto,
tende ad essere sopraffatto dalla concentrazione quasi esclusiva sul senso di
inquietudine prodotto dal mistero svelato solo in conclusione. Nell’ipotesto
non è l’elemento medianico in sé il centro della vicenda, quanto l’incontro, denso
di strane circostanze, tra il fantasma di Giovanni e la madre, oppressa da una
inquietudine incomprensibile:
Ridotto
all’essenzialità dei meccanismi assurdi di questo ritorno, l’episodio narrativo
si colloca, per il richiamo di sottile angoscia che lo anima, nella abituale
atmosfera rarefatta di cui si compone, nel corpus novellistico, la
«premura esplorativa e tematica interessata alle trame dell’esistenza, ai
fermenti e alle fantasie del “magico quotidiano”» (Bertacchini 1988: 641). La
forma interrogativa, tipica dell’indagine sullo scacco gnoseologico che
annichilisce l’uomo (“E perché non sei venuto da me quando ti chiamavo?”,
incalza il protagonista di Piccola passeggiata), restituisce al lettore,
come allo spettatore, «tutta l’angoscia – anche fisica – dell’uomo di fronte a
ciò che ignora» (Bo 1972: 147).
Allargando lo
specchio delle contaminazioni a un quadro di riferimenti europei eventualmente
filtrati dalle trovate scenico-‐narrative meno scontate nel repertorio nazionale,
Paolo Puppa connette la genesi della versione teatrale del Mantello ad
un orizzonte denso di spunti eterogenei e possibili suggestioni:
Nel solco di un
confronto con i modelli coevi o immediatamente precedenti, notiamo che
l’adattamento teatrale esibisce dispositivi testuali affini a quelli di Our
Town e di Spoon River Anthology, opere che avevano colpito
l’immaginazione di Buzzati.[9] Nel
soldato che torna dal regno della morte per salutare un’ultima volta la madre
potrebbe vivere lo stesso nostalgico e doloroso languore della Emily di Wilder,
che ricompare tra i vivi per celebrare di nuovo il suo dodicesimo compleanno,
ma, soprattutto, è l’apparizione parlante dei nonni, creature apparentabili a
quelle degli epitaffi di Lee Masters, a suggerire una plausibile influenza.
L’espediente scenico del ritratto rinchiude, in un cortocircuito visivo di
apparizioni giocato sulla soglia esoterica del doppio, l’immagine del soldato,
che, come richiesto dalla didascalia di apertura, “deve potersi rompere
facilmente”, per cadere ed essere raccattato dalla madre mentre il figlio
svanisce all’orizzonte.
Nell’adattamento
teatrale, tuttavia, come abbiamo accennato, il motivo conduttore dell’azione
principale, costruita sulla potenza evocatrice del revenant, è frammentato
in una cornice che lo dilata e, contemporaneamente, funziona da detonatore
della forza suggestiva che lo stesso esibisce nel racconto. Intervengono
infatti, anche per effetto della mutazione dei tempi, modifiche strutturali
alla trama iniziale su cui si sviluppa la storia del Mantello. La madre
non è più la donna timidamente amorevole sulle cui “gracili spalle” si posa lo
“sguardo di inesprimibile tristezza” del figlio Giovanni, con il quale ella
cerca di scherzare pur tormentata da una angoscia opprimente, ma è descritta
come “energica, orgogliosa, ostinata”, e per di più, come abbiamo visto,
intenta a far da maestra a tre svogliati studenti perché “la vita non è più
facile come una volta”. I due fratellini piccoli del racconto non ci sono più e,
al loro posto, compare Rita, sorella diciottenne impegnata, come la madre, a
far progredire l’economia domestica, in veste di improvvisata rammendatrice.
L’altra figura femminile, soltanto evocata dalla madre nel racconto, la
fidanzatina Marietta, si incarna qui in una giovane e graziosa fanciulla al
servizio del colonnello di Giovanni, e i suoi rapporti sentimentali con il
soldato (come quelli con il colonello) rimangono in una sfera di ambiguità non
risolta. La casa di montagna, che era lo sfondo astratto del racconto, è dunque
sottoposta ad un processo di imborghesimento, non privo di piglio polemico,
secondo quanto si può leggere nella lunga didascalia con cui, in apertura, sono
presentati gli oggetti di cui il soggiorno e lo studiolo visibili sulla scena
sono costipati. La presa di posizione di Buzzati in chiave sociale, del tutto
assente nel racconto, emerge più decisamente dal riferimento alla costruzione
di una centrale elettrica, sorta al posto del laghetto di cui Giovanni ha
memoria nei ricordi che precedono la sua chiamata alle armi. Ma c’è di più:
mentre nel racconto il fantasma del soldato, come portato via dal vento, esce
di scena al galoppo verso la montagna, insieme alla figura nera e misteriosa
che lo aveva atteso per portarlo definitivamente con sé, nel dramma l’ombra
scura, proiettata sin dall’inizio nello spazio della scena e innalzata al grado
di capitano, arriva con il soldato su una vistosa automobile, la cui corsa
verso il nulla chiude in dissolvenza acustica il finale.
Compaiono inoltre
nell’adattamento teatrale altri due nuovi personaggi, il sindaco “avido di
notizie” e untuoso in una ostentazione di forzata cordialità e il giovane
segretario comunale, imbelle e arrogante. Il primo assedia il soldato
affermando, con falsa modestia, di voler preparare “un libretto”, “un opuscolo
sulla guerra per le tecniche inferiori” e tentando, quindi, di attingere
materiale di prima mano da “un soldato autentico”. Spetta invece al segretario,
dominato dal rancore per una rivalità ancora bruciante nei confronti di
Giovanni, aprire prepotentemente i lembi del suo mantello, scoprendone le bende
insanguinate, segno inequivocabile della morte avvenuta in battaglia. Questo
finale riprende l’identica azione descritta nel racconto, nel quale però, in
luogo della maligna invadenza del segretario, è il fratellino, in un impeto di
festosa curiosità, a svelare, suo malgrado, il tragico segreto del soldato.
L’azione di forzatura del mantello chiuso, ostinatamente portato da Giovanni,
nonostante il caldo, per tentare di nascondere la rivelazione raccapricciante
della sua fine, determina nel racconto il colpo di scena conclusivo,
confermando gli indizi prodotti dalla narrazione nel suo svolgersi, mentre,
nell’atto unico, si pone esclusivamente come emersione risolutiva di una
certezza già ricavata nel pubblico dalla presenza scenica dei nonni defunti.
Avviandoci a
concludere, osserviamo che con Il mantello possiamo verificare una
stratificazione ulteriore, comprendente la relazione intertestuale tra
l’elemento biografico, la cronaca e la creazione artistica, nella sua doppia
veste narrativa e teatrale. Il nucleo sotteso sia al racconto che
all’adattamento teatrale è, infatti, la guerra, esperita da Buzzati prima sul
campo, nel ruolo di ufficiale di complemento, e poi attraverso il filtro della
scrittura durante le corrispondenze per il Corriere della Sera, reportage
confluiti nella sezione Resoconti di memorabili viaggi in paesi diversi
delle postume Cronache terrestri (1972). In tal senso, Il mantello
sembra apparentabile, come suggerisce Guido Davico Bonino (Buzzati 2006: 12-‐‑13), a vari racconti di guerra delle due
raccolte iniziali, da L’assalto al grande convoglio, Eleganza
militare, Notizie false, a La canzone di guerra, animati
dagli stessi motivi. Sul piano dei ricordi personali, che spesso, come i sogni,
forniscono all’autore la materia prima per la narrazione, vale la pena
soffermarci, solo per aggiungere un altro tassello interpretativo alle
molteplici chiavi offerte dai due testi presi in esame, lo speciale rapporto
che lega Buzzati alla madre. Lo scopriamo dalle sue stesse parole: «per me
l’importanza della madre […] è questa: quando muore lei ci si accorge che è
l’unica persona al mondo che veramente partecipa del nostro dolore. Tutti gli
altri, e anche la moglie che ti vuol bene, ti possono essere vicini, ma non
sarà mai la stessa cosa […]» (Panafieu 1973: 179-‐‑180). Ricordando la morte di sua madre, «il lavoro
vittorioso sulla persona che gli era stata più cara – scrive Carlo Bo – non faceva che continuare la sua opera eterna di
ribaltamento e di rivoluzione nel nulla» (1972: 147-‐‑148).
Questo
esercizio di lettura, applicato ad un caso specifico di autoadattamento, sembra
dunque contribuire alla conferma dell’idea base, nota alla semiotica, di una
sostanziale dialogicità del testo, in chiave non solo di una prospettiva
metodologica ma anche di una indagine sull’estetica contemporanea. Come ci
ricorda Lotman, sulle cui parole concludiamo la riflessione, «la traduzione dei
medesimi testi in altri testi semiotici, l’assimilazione di testi diversi, lo
spostamento dei confini fra i testi [...] costituiscono il meccanismo di
appropriazione culturale della realtà» (Lotman 1975: 31).
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Katia Trifirò è docente a contratto di “Scrittura
scenica” e cultrice di Letteratura italiana contemporanea e Discipline dello
spettacolo presso l’Università degli Studi di Messina. Qui, nel 2011, ha
conseguito il titolo di Dottore di ricerca in “Forme delle rappresentazioni storiche,
È segretaria di redazione per «Mantichora», rivista internazionale
peer-reviewed del Centro Studi sulle Arti Performative “UniversiTeatrali”. Si è
occupata dell’intera opera di Beniamino Joppolo, oggetto di indagine in
svariati saggi e nel volume Dal Futurismo all’assurdo. L’arte totale di
Beniamino Joppolo (Le Lettere, 2012, collana “AlterAzioni”). Ha pubblicato
saggi e articoli sul teatro grottesco, l’avanguardia futurista in Sicilia, la
drammaturgia italiana contemporanea, la letteratura migrante.
[1] «Eppure badate che, nei panni di Svevo e Tozzi, nei panni cioè dello scrittore per il teatro ma non di teatro, stanno molti romanzieri e poeti del nostro Novecento. Tra i coetanei, pressappoco, e in qualche modo conterranei di Tozzi, Cicognani, Pea, Lisi scrivono (invano) di teatro […] La storia del travagliato rapporto tra tutti (o quasi) i nostri scrittori e il teatro è sempre la stessa: la storia di un amore mancato» (Buzzati 2006: 6-7). Da Bacchelli, Alvaro, Malaparte, Savinio a Moravia, Silone, Banti, Landolfi, Rea, Flaiano, Parise sarebbe lungo l’elenco di coloro che, del teatro, sono stati protagonisti a tempo determinato, vivendo quell’esperienza con un margine di timidezza e sospetto, affascinati e diffidenti a un tempo
[2] Per una ricognizione sulla revanche drammaturgica che caratterizza il panorama nazionale dagli anni Ottanta ad oggi si rimanda a Guccini-Tomasello 2009.
[3] Ferrovia sopraelevata (Bergamo, Edizioni della Rotonda, 1955; poi Milano, Ferriani, 1960), Procedura penale (Milano, Ricordi, 1959), Il mantello (Milano, Ricordi,1960), Era proibito (Milano, Ricordi, 1963), Battono alla porta (Milano, Suvini-Zerboni, 1963). Cfr. Chailly 1987, Grisi 1961, Marcone 1996.
[4] Per La Scala Buzzati lavora ai soggetti e ai costumi del balletto Jeu de cartes di Igor Stravinskij, Fantasmi al Grand Hotel della coreografa Luciana Novaro, e all’opera in un atto Era proibito, di cui scrive i testi per le musiche di Luciano Chailly, con il quale lavorerà anche al Teatro Donizetti di Berga-‐mo e a Villa Olmo di Como. Cfr. Crespi Morbio 2006.
[5] Sui procedimenti retorici del fantastico buzzatiano, cfr. Caspar 1990.
[6] Il riferimento è alla notissima dichiarazione, inserita in un discorso sulla propria pittura (Un equivoco, nel catalogo della Galleria d’arte Cavallet-‐to, 1968), in cui Buzzati ne afferma il parallelismo con la scrittura: «Ma di-‐pingere e scrivere sono in fondo per me la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle sto-‐rie». Allo slittamento di soglie (Coglitore 2011) tra scrittura e pittura sono dedicati numerosi contributi critici; per ciò che riguarda il teatro, oggetto specifico di questa indagine, si rinvia a Mazzone 2006 per la rilevanza degli elementi ‘pittorici’ nella drammaturgia buzzatiana e a Frontenac 2002 per la stretta alleanza tra opera scritta e disegnata attorno al tema centrale della morte.
[7] È una ipotesi che si ritrova tra i critici italiani in Bertacchini 1979, Ceri-‐sola 1986, Ariani, Taffon 2001. Questi ultimi, in un possibile milieu di “assur-‐do all’italiana” riconoscono a Buzzati la capacità di riversare nei testi teatrali trovate proprie della sua avventura di narratore surreale e fantastico, come sembra dimostrare Il mantello, «col soldatino dato per disperso che ritorna all’improvviso e si rende conto di essere morto (lo attende fuori un capitano “innamorato di lui”, simbolo della Morte) quando vede le ombre dei bisnon-‐ni che gli chiedono perché è tornato tra i vivi […]» (2001: 202).
[8] La rappresentazione avvenne il 14 marzo 1960 al Teatro del Convegno di Milano, per la regia di Enzo Ferrieri. Nello stesso anno il testo fu pubblicato su Il Dramma, n. 285, Torino.
[9] «Delle opere teatrali che ho viste
rappresentate, e che mi hanno più colpito, quella che ricordo con maggior
rilievo, perché è stata quella che proprio mi ha colpito di più, è La
piccola città di Thornton Wilder. Ma questo, già, era nel 1942. Quindi
avevo trentacinque anni. E secondo me La piccola città deriva
probabilmente molto da quello che io ritengo un capolavoro: l’Antologia di
Spoon River di Lee Masters, che ha influenzato una quantità immensa di
letteratura moderna. In questa Piccola città, c’è lo stesso spirito,
molto poetico, triste, amaro, della vita provinciale americana. È una cosa
molto bella, estremamente commovente» (Panafieu 1973: 30)