È una danza tra gli spazi quella costruita da Italo Calvino attraverso la voce di Marco Polo e l’orecchio del Gran Kan Kublai; una danza a partire dalla quale il lettore può riconoscere i suoi luoghi: quelli della nostalgia e quelli del desiderio, i luoghi presenti e quelli non ancora abitati, quelli della memoria e gli altri dell’assenza. Una sorta di Mille e una notte delle città, che ogni volta di nuovo il viandante Marco Polo intesse a favore del sedentario sovrano, per esorcizzare la malinconia delle sue sere.
Dal racconto si ergono case, ponti e strade, e volti indaffarati a vivere la vita. Ma esisteranno davvero queste citta? È la domanda che a un certo punto inquieterà il sovrano triste, cui pare che Marco Polo non si sia mai mosso dal suo giardino, e che tutti quei volti che si avvicendano tra templi, tappeti, alberi e strade esistano solo perché pensati da loro, immobili da sempre in un sontuoso palazzo, a dispetto del movimento della vita che narrano:
«Il Gran Kan decifrava i segni, però il nesso tra questi e i luoghi visitati rimaneva incerto […] Ma, palese o oscuro che fosse, tutto quel che Marco mostrava aveva il potere degli emblemi, che una volta visti non si possono dimenticare né confondere» (p. 22). Del resto il Gran Kan possiede un veritiero atlante dove tutte le città del suo impero sono disegnate palazzo per palazzo, strada per strada; sono mappe consolanti e veridiche di quanto esiste, mentre il racconto che Marco tesse cambia di volta in volta e a seconda dell’interlocutore, per cui Giava presenta una forma per gli scaricatori di porto, un’altra per i pirati genovesi, un’altra ancora per i gondolieri, poiché «chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio» (p. 138). Miserevole possesso l’atlante del Gran Kan! La mappa non è il territorio e il navigante della Serenissima con le sue descrizioni va solo contrabbandando «stati d’animo, stati di grazia, elegie» (p. 99).
L’inestimabile nel racconto di Marco Polo sta infatti in quel vuoto tra le parole, nello spazio sospeso dalla voce che si interrompe e che lascia libera la divagazione del pensiero, cosicché è possibile errare tra gli interstizi del silenzio, «fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa» (p. 39). Il viaggio diventa allora un inoltrarsi nell’invisibile, una passeggiata tra i possibili, nella regione del desiderio, che mentre si produce è già ricordo.
L’atlante di Kublai custodisce intatte le differenze fra i luoghi, mentre chi è da sempre in viaggio, come Marco Polo, sa bene che a furia di peregrinare a poco a poco contorni e differenze si smussano e «ogni città va somigliando a tutte le città» (p. 139). Le interpretazioni hanno sostituito i fatti, i segni rinviano in una infinita ricorsività ad altro da sé, e anche le identità si frantumano all’interno di spazi che assumono la veste di passaggi, luoghi diafani di transizione; la consistenza delle parole di Marco Polo che dipinge con forza sempre nuova gli oggetti che circondano la vita: «croste di formaggio, carte unte, resche, risciacquatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende […] scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, bottoni perduti, carte di cioccolatini […]» (p. 112), sembra cozzare con la loro fugacità, con la dissoluzione inevitabile cui ogni produzione umana è irrimediabilmente votata.
Nello spazio eminentemente antropico della città, significante per eccellenza, ciascuno può mettere ciò che vuole: «nomi di uomini illustri, virtù, numeri, classificazioni vegetali e minerali, date di battaglie, costellazioni, parti del discorso» (p. 15), in un caleidoscopio sfaccettato dove memoria e oblio, vita e morte si intrecciano senza soluzione di continuità.
E allora ecco apparire Clarice, città gloriosa, che più volte cadde e rifiorì, rabberciando e riciclando le vestigia del suo antico splendore, dove i preziosi tendaggi di broccato finivano a fare da lenzuola e il basilico veniva piantato nelle urne cinerarie. Di essa dunque restano solo il nome, l’ubicazione e gli oggetti più difficili da rompere; oppure Leonia, la cui opulenza si misura «dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove» (p. 113). C’è poi Laudonia, la terra dei non nati, di tutto l’inespresso che attraversa la mente dei vivi come dubbio angoscioso, arcano da interrogare.
E Ancora Trude, città globale, che si distingue dalle altre solo per il nome che il viaggiatore legge all’aeroporto, poiché il mondo pare «ricoperto da un’unica Trude, che non comincia e non finisce» (p. 129). C’è poi Raissa, che ricorda la vita, disperata e violenta, fatta di litigi e piatti rotti, ma che nasconde in ogni angolo un bambino che da una finestra ride e un muratore che corteggia un’ostessa, un ombrellaio che festeggia un buon affare e una gran dama innamorata di un ufficiale che le ha sorriso nel saltare l’ultima siepe. A Raissa, città triste «corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro […] cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere» (p. 149).
Allora poco importa che i sandali di Marco Polo abbiano davvero calcato le polveri del globo e che il sovrano triste possegga realmente un così vasto impero; la potenza del racconto non si fonda sul discorso apofantico e le città descritte avrebbero la stessa forza anche se emerse dal dialogo di «due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo» intenti a rovistare «in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia»; anche se si trattasse del vaneggiamento di due uomini ebbri, che, con pochi sorsi di cattivo vino riescono a vedere «intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente» (p. 104).
Le città invisibili che ogni sera compaiono dinnanzi agli occhi stanchi di Kublai, appaiono a seconda degli stati d’animo eden perduti e anelati, o inferni minacciosi dai quali fuggire.
Il monito finale del mercante‐narratore vale allora per le città invisibili e per quelle visibili, per quelle di ieri e per quelle di oggi, perché riguarda il nostro abitare nel mondo: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se c’è n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (p. 164).
FABIANA GAMBARDELLA
Contenuto pubblicato originariamente come: F. GAMBARDELLA, Italo Calvino: Le città invisibili (recensione), in "Scienza & Filosofia" 9 (2013), pp. 254-257 [link] secondo licenza CC BY 3.0
Sono state qui aggiunte le figure, con l'eccezione della copertina del libro.
Fabiana Gambardella è assegnista di ricerca al Dipartimento di Filosofia dell'Università Federico II di Napoli.
Immagine di thumbnail di PjotrP (Flickr), distribuita secondo licenza CC BY-SA 2.0