di Sofia Kovalevskaja
[1866. Sofia, che sarebbe diventata la prima donna a tenere una cattedra universitaria in Nord Europa, aveva quindici anni. Sua sorella Anjuta, futura rivoluzionaria, ne aveva 23.]
Anjuta era talmente felice del suo primo successo letterario, che subito iniziò un’altra storia. L’eroe di questo racconto era un giovanotto, che era stato allevato lontano da casa in un monastero da suo zio, un monaco. L’eroe, il cui nome era Michail, aveva qualche somiglianza con Alёša de I fratelli Karamazov. Quando lessi quel romanzo, venni subito colpita dalla somiglianza; ne parlai con Dostoevskij, che, all’epoca, incontravo molto spesso.
“Credo che tu abbia ragione!”, disse lui, battendosi la fronte. “Ma ti do la mia parola d’onore che non ho mai avuto in mente questo Michail, quando creai il mio Alёša… Forse, inconsciamente, era nella mia memoria”, aggiunse dopo una pausa.
Quando la seconda storia di Anjuta fu stampata, giunse la catastrofe; mio padre si trovò in mano una lettera di Dostoevskij [il nobile lituano non sapeva della corrispondenza fra sua figlia e Dostoevskij], e ci fu gran trambusto. Eravamo appena tornati a San Pietroburgo dalla campagna, quando Anjuta scrisse a Dostoevskij, chiedendogli di venire. E venne -- il giorno stesso che lei aveva indicato. Ricordo ancora l’impazienza febbrile con cui attendemmo il suo arrivo, e come, un’ora intera prima che potesse arrivare, già saltavamo ogni volta che il campanello suonava. Ma questa prima visita di Dostoevskij fu un fallimento completo.
Nostro padre aveva un forte pregiudizio contro tutti gli uomini letterari. È vero che consentì che mia sorella facesse conoscenza con Dostoevskij, ma non fu senza una segreta ansia. Quando stavamo tornando in città (lui rimase in campagna), nel separarci disse a mia madre:
“Pensa, Lisa, alla grande responsabilità che ti stai prendendo. Dostoevskij non fa parte dei nostri circoli. Che cosa sappiamo di lui, dopo tutto? Solo che è un giornalista e che è stato in prigione. Una bella raccomandazione! Dovremo essere molto cauti con lui.”
Mio padre insistette con mia madre specialmente sul fatto che non doveva lasciare Anjuta da sola con Dostoevskij neppure per un minuto. Implorai di poter essere presente a questo primo incontro. Le nostre due vecchie zie tedesche ogni poco entravano nella stanza con una scusa o l’altra, e fissavano il nostro ospite come se fosse stato una qualche strana bestia; infine, si sedettero entrambe sul divano e vi rimasero finché se ne andò.
Anjuta era furiosa che il suo primo incontro con Dostoevskij, su cui aveva sperato tanto, avesse luogo in circostanze del genere; sembrava contrariata e non parlava. Anche Dostoevskij era molto a disagio in presenza delle due vecchie signore. Era chiaro che era molto infastidito. Sembrava vecchio e malato quel giorno, come sempre quando era di cattivo umore. Strattonava nervosamente la sua barbetta bionda, si morsicava i baffi, e faceva delle gran brutte facce.
La mamma fece del suo meglio per far partire una conversazione interessante. Con il più amichevole dei sorrisi convenzionali sulle sue labbra, ma evidentemente molto confusa, cercava di dirgli frasi gradevoli e lusinghiere d’ogni genere e di fargli domande intelligenti.
Dostoevskij rispondeva a monosillabi e con scortesia. Alla fine mamma fu au bout de ses ressources, e non disse più nulla. Dostoevskij sedette con noi per mezz’ora; poi prese il suo cappello, si inchinò frettolosamente e con imbarazzo a tutti noi, ma senza dare la mano a nessuno -- e se ne andò.
Non appena se ne fu andato, Anjuta corse nella sua stanza, si gettò sul letto, e cominciò a piangere. “Rovinate sempre tutto!”, disse, più e più volte.
Eppure, qualche giorno dopo, Dostoevskij riapparve, e la sua visita stavolta fu molto opportuna, perché la mamma e le zie erano fuori, e a casa c’eravamo solo mia sorella ed io. Si sgelò subito. Prese Anjuta per mano, si sedette accanto a lei sul divano, e subito iniziarono a parlare come dei vecchi amici. La conversazione non si trascinò faticosamente fra argomenti privi d’interesse, come nella prima visita. Anjuta e lui dovevano sfruttare il tempo il meglio possibile, così cicalavano, scherzavano, e ridevano con entusiasmo.
Ero seduta nella stessa stanza, ma non partecipavo alla conversazione; fissavo Dostoevskij con gli occhi sgranati, e divoravo ogni singola parola che diceva. Stavolta sembrava diverso che nella sua prima visita -- giovane, franco, intelligente e attraente. “Possibile che abbia davvero quarantatré anni?”, pensai. “Possibile che sia tre volte e mezzo più la mia età, e il doppio di Anjuta? Dicono che è un grande scrittore, ma ci si può parlare come degli amiconi!”. E tutto a un tratto mi parve un tale tesoro. Tre ore volarono via. All’improvviso ci fu un rumore nell’atrio: la mamma era tornata dalla città. Non sapeva che c’era Dostoevskij, ed entrò con il cappello in testa, carica di pacchetti.
Quando vide Dostoevskij con noi, ne fu stupita e un po’ allarmata. “Che cosa direbbe mio marito?”, dovette pensare. Accorremmo a salutarla, e quando ci vide così di buon umore, fu lei a rilassarsi, e chiese a Dostoesvkij di rimanere a pranzo.
Da quel giorno in poi venne a casa nostra come un amico. Poiché la nostra permanenza a San Pietroburgo non doveva durare a lungo, veniva frequentemente, diciamo tre o quattro volte la settimana.
Era particolarmente gradevole quando veniva una sera in cui non c’erano altri visitatori. In tali occasioni, era particolarmente vivace ed interessante. A Fёdor Michailovič non piacevano le conversazioni in generale; sapeva parlare solo in monologhi, e anche allora solo quando i presenti erano dalla sua parte, e desiderosi di ascoltare attentamente. Quando c’erano queste condizioni, parlava nel modo più bello -- eloquente e convincente, come nessun altro poteva essere.
Spesso ci raccontava la storia dei romanzi che stava progettando, spesso episodi e scene della sua vita. Ricordo ancora chiaramente come, per esempio, descrisse il momento in cui stava in piedi, condannato a morte, con gli occhi bendati davanti alla compagnia di soldati, e aspettava la parola “fuoco!” e come invece era arrivato il battito dei tamburi, e avevano sentito di essere stati graziati.
Dostoesvkij spesso era molto realistico nel parlare, e credo che dimenticasse che c’erano delle ragazzine ad ascoltarlo. Nostra madre, a volte, ne era terrorizzata. In questa maniera una volta ci raccontò una scena di un romanzo che aveva progettato da giovane. L’eroe era un padrone terriero di mezza età, molto educato e rifinito; spesso andava all’estero, leggeva libri profondi, e comprava quadri e stampe. Nella sua giovinezza, era stato molto selvaggio, ma si era calmato con il passare degli anni; a quest’epoca, aveva una moglie e dei bambini, ed era rispettato da tutti. Be’, una mattina si sveglia molto presto; il sole spende nella sua stanza; tutto intorno a lui è molto fine, carino e confortevole. Da autentico sibarita, si impegna per non svegliarsi del tutto, così da non distruggere questo stato di felicità quasi vegetale. Al confine fra il sonno e la veglia, assapora dentro di sé una serie di gradevoli impressioni del suo ultimo viaggio all’estero. Pensa alla splendida luce sulle spalle nude di una Santa Cecilia in una delle gallerie. Poi alcuni raffinati passaggi da un libro chiamato Della bellezza e dell’armonia dell’universo gli si affacciano alla mente. Ma, nel mezzo di questi sogni e sensazioni piacevoli, diviene improvvisamente conscio di uno senso peculiare di disagio, come se venisse da un dolore interno, o da una misteriosa perturbazione. In modo molto simile a quello che un uomo prova quando ha una vecchia ferita, da cui non è stata estratta la pallottola; allo stesso modo, lui si era sentito perfettamente a suo agio, quando improvvisamente la vecchia ferita comincia a dolere. E ora il nostro proprietario terriero si interroga su che cosa questo possa significare. Non ha malattie, non ha problemi, eppure eccolo qui, completamente infelice. Ma ci deve essere qualcosa per spiegarlo, e sforza al massimo la propria consapevolezza… E improvvisamente lo capisce, e lo prova tutto vividamente, come se fosse tangibile -- e con quale orrore in ogni atomo del suo corpo! -- come se fosse successo ieri, invece di vent’anni fa. Eppure, per tutti quei vent’anni, non lo ha toccato.
Quello che ricorda è come una volta, dopo una notte di dissolutezza, incitato dai suoi compagni ubriachi, ha violentato una ragazzina di dieci anni.
Quando Dostoevskij pronunciò queste parole, mia madre gettò le mani sopra la testa e gridò terrorizzata: “Fёdor Michailovič! Santo Cielo! Le bambine ascoltano!”.
A quell’epoca non avevo idea ciò di cui parlava Dostoevskij, ma dall’orrore di mia madre conclusi che dovesse essere qualcosa di spaventoso.
La mamma e Dostoevskij divennero comunque buoni amici. Le piaceva molto, anche se le dava parecchio da sopportare.
Prima che ce ne andassimo da San Pietroburgo, la mamma decise di tenere una festa serale d’addio, e invitò tutte le nostre conoscenze e, ovviamente, anche Dostoevskij. Inizialmente rifiutò, ma, sfortunatamente, la mamma riuscì a persuaderlo a venire.
La serata fu insolitamente spenta. Gli ospiti non avevano il minimo interesse l’uno per l’altro; ma, da persone di buona famiglia, per cui tali serate spente formano una parte essenziale dell’esistenza, sopportavano il loro tedio stoicamente.
È facile indovinare come si sentisse Dostoevskij in tale compagnia! Nella sua personalità e nel suo aspetto, era spaventosamente alieno a chiunque altro. Si era spinto tanto in là nel sacrificio, da indossare l’abito da cerimonia; e questa marsina, che non gli stava e lo metteva molto a disagio, rovinò il suo umore per tutta la serata. Come tutti i neurotici, era molto timido con gli sconosciuti, ed era chiaro che il suo cattivo umore si sarebbe rivelato alla prima opportunità.
Mia madre si affrettò a presentarlo agli altri ospiti; invece di rispondere con cortesia, borbottò qualcosa di inarticolato e subito voltò la schiena. Ma il peggio fu che monopolizzò Anjuta fin dall’inizio. Si ritirò con lei in un angolo della stanza, chiaramente con l’intenzione di tenercela per tutto il tempo. Ciò era, ovviamente, contrario a ogni etichetta; e si rivolgeva a lei, per di più, con maniere assolutamente inaccettabili -- tenendole la mano e sussurrandole all’orecchio. Anjuta era molto imbarazzata, e la mamma era mortalmente contrariata. All’inizio, cercò di fargli intendere con delicatezza quanto fosse inappropriata la sua condotta. Passò accanto alla coppia come per caso, e chiamò mia sorella, come per farla andare nell’altra stanza per qualche comunicazione. Anjuta provò ad alzarsi e andarsene, ma Dostoevskij freddamente la trattenne, e disse: “No, aspetta -- non ho ancora finito”. Ma ciò esaurì la pazienza di mia madre.
“Scusatemi, Fёdor Michailovič; da figlia di questa casa, deve occuparsi degli altri ospiti”, disse con indignazione, conducendo via mia sorella.
Dostoevskij era furioso; se ne stava in silenzio, seduto nel suo angolo, e gettava sguardi malevoli da tutte le parti.
Fra gli ospiti ce n’era uno che gli era stato straordinariamente antipatico fin dal primo momento. Questi era un nostro lontano parente, un giovane tedesco, un ufficiale in uno dei reggimenti della guardia.
Bello, alto e soddisfatto di sé, questo personaggio invocava la sua ostilità. Il giovanotto era seduto, praticamente in posa, su una confortevole sedia, e metteva in mostra le sue snelle caviglie, avvolte in calze di seta aderenti. Si piegò gioiosamente verso mia sorella, e chiaramente le diceva qualcosa di molto divertente. Anjuta, che non aveva ancora recuperato dalla scena fra Dostoevskij e mia madre, lo ascoltò con un sorriso vagamente stereotipato -- “il sorriso di un angelo gentile”, come lo descrisse ridendo la nostra governante inglese.
Mentre Dostoevskij guardava la coppia, un’autentica storia d’amore si assemblò nel suo cervello: Anjuta odia e disprezza il tedesco, da quel gagà compiaciuto che è, ma i suoi genitori vogliono maritarla con lui. L’intera festa era ovviamente stata imbastita solo a questo scopo!
Credette subito a questa ipotesi, e andò su tutte le furie. Quell’inverno, si parlava molto di un libro di un chierico inglese: Paralleli fra il protestantesimo e l’ortodossia. Nel nostro circolo russo-tedesco provocava molto interesse, e la conversazione si animò non appena si menzionò questo libro. La mamma, che era protestante, osservò che il protestantesimo aveva un vantaggio rispetto all’ortodossia, e cioè che i protestanti erano più pratici della Bibbia.
“E la Bibbia venne scritta per signore alla moda?”, esplose improvvisamente Dostoevskij, che era stato testardamente in silenzio fino a questo punto. “Perché nella Bibbia sta scritto, fra le altre cose: ‘E Dio li fece maschio e femmina’. E ancora: ‘Per questo una donna abbandonerà il proprio padre e la propria madre, e si unirà a suo marito.’ Quella era la concezione che Cristo aveva del matrimonio! Che cosa ne possono dire le nostre madri, che pensano solo a come liberarsi delle proprie figlie con il massimo dei vantaggi?”
Dostoevskij disse queste parole con rara passione. L’effetto fu stupendo. Tutti i nostri tedeschi di buona famiglia erano confusi, e fissavano con tanto d’occhi. Ci volle qualche momento, perché capissero quanto fuori luogo era stato il discorso di Dostoevskij, e allora tutti ripresero a parlare, per cancellare subito l’impressione infelice.
Dosotevskij gettò a tutti un’altra occhiata malevola, si ritirò nel suo angolo, e non disse una parola per il resto della serata.
Quando venne il giorno dopo, la mamma provò a fargli capire con una fredda accoglienza che si sentiva offesa. Ma la sua natura era troppo buona e non era mai riuscita ad essere arrabbiata a lungo con qualcuno, e così presto divennero di nuovo amici.
Ma, d’altro canto, le relazioni fra Anjuta e Dostoevskij cambiarono per sempre da quella sera. Lui perse tutta la propria influenza su di lei, in quel sol colpo; lei ora si diede deliberatamente a contraddirlo e provocarlo. Lui mostrava, da parte sua, grande irritazione e intolleranza; le richiedeva un resoconto di ogni giorno in cui non era stato con noi, e mostrava molta ostilità verso chiunque le piacesse. Non ci visitava meno frequentemente, anzi, veniva anche più spesso di prima, e rimaneva ogni volta più a lungo, anche se non smetteva mai di litigare con mia sorella durante tutta la visita.
All’inizio della loro frequentazione, Anjuta rifiutò molti inviti e occasioni divertenti, se sapeva che Dostoevskij sarebbe venuto in quei giorni. Ora, anche quello era cambiato. Quando veniva da noi una sera in cui avevamo altri visitatori, Anjuta, con calma, si dedicava agli altri ospiti. E, se veniva invitata fuori in una delle serate con lui, gli scriveva e posticipava.
Il giorno dopo, Dostoevskij era sempre di cattivo umore. Anjuta faceva finta di non accorgersene, e prendeva un pezzo di cucito. Questo lo irritava ulteriormente; se ne andava in un angolo e sedeva in silenzio. Neanche mia sorella diceva nulla.
“Smetti di cucire!”, dice infine Dostoevskij, e le prende il suo lavoro.
Mia sorella incrocia le braccia sul petto e non dice niente.
“Dov’eri la notte scorsa?”, chiede Dostoevskij, arrabbiato.
“A un ballo”, dice mia sorella distrattamente.
“E hai ballato?”
“Ovviamente.”
“Con tuo cugino?”
“Con lui e con degli altri”.
“E ti diverte questo?”
Anjuta fa spallucce.
“In mancanza di qualcosa di meglio, sì”, risponde, e ricomincia a cucire.
Dostoesvkij la guarda in silenzio per alcuni momenti.
“Sei una creatura sciocca e superficiale”, dichiara improvvisamente.
Questo era il tono della gran parte delle loro conversazioni. I litigi più aspri erano quando affiorava il tema del nichilismo. I dibattiti su questo soggetto spesso duravano fino a notte; e ognuno esprimeva visioni molto più estreme di quelle che aveva.
“Tutta la generazione più giovane è stupida ed ignorante!”, diceva Dostoevskij. “Per loro, un paio di stivali campagnoli è più prezioso che tutto Puškin.”
“Puškin è obsoleto”, asseriva mia sorella. Sapeva che nulla lo infuriava totalmente come un’osservazione irrispettosa su Puškin.
Dostoevskij spesso saltava su con rabbia, afferrava il suo cappello, e se ne andava asserendo solennemente che non voleva avere nulla più a che fare con una nichilista, che non sarebbe più passato per la nostra porta. Ma la sera dopo ritornava, come se nulla fosse successo.
Più tesa diveniva la relazione fra Dostoevskij e mia sorella, più diventavo amichevole nei suoi confronti. Ogni giorno ero più affascinata da lui, e più soggetta alla sua influenza. Ovviamente vedeva come lo adoravo, e chiaramente gli piaceva. Spesso diceva a mia sorella che avrebbe dovuto prendermi ad esempio.
Quando Dostoevskij pronunciava qualche idea profonda o qualche intelligente paradosso, mia sorella spesso decideva di fingere di non capirlo; io mi riempivo di entusiasmo, mentre lei, per tormentarlo, dava qualche risposta insipida.
“Sei una cosa povera e insignificante!”, esclamava allora Dostoevskij. “Come è diversa tua sorella! È ancora una bambina, ma come mi capisce meravigliosamente! La sua sì, che è un’anima delicata e sensibile!”
Io diventavo rossa di gioia; mi sarei lasciata volentieri tagliare a pezzi, per fargli vedere quanto bene lo capivo. Nel profondo del mio animo, ero ben contenta di questo cambiamento nella relazione fra mia sorella e Dostoevskij; ma me ne vergognavo. Mi accusavo di tradimento verso mia sorella, e mi sforzavo molto per ripagare la mia colpa segreta comportandomi con molta gentilezza verso di lei. Ma nonostante tutte le fitte della coscienza, ero sempre lieta di ogni nuova lite fra Dostoevskij e Anjuta. Lui mi chiamava la sua amica, e io, nella mia semplicità, davvero credevo di esser più cara a lui che mia sorella, e di capirlo meglio. Lodava perfino il mio aspetto, a svantaggio di quello di lei.
[Dostoevskij fece infine una proposta di matrimonio alla sorella maggiore, ma non fu accettata.]
Dostoevskij venne ancora una volta, per dirci addio. Rimase solo per poco tempo, ma fu semplice e, a modo suo, amichevole verso Anjuta; promisero di scriversi a vicenda. Mi disse addio molto dolcemente. Addirittura mi baciò, ma non aveva idea, ne sono certa, dei sentimenti che aveva risvegliato in me.
Dopo circa sei mesi, Dostoevskij scrisse a mia sorella, per dire che aveva conosciuto una ragazza meravigliosa e se ne era innamorato, e lei aveva accettato di sposarlo. Questa ragazza, Anna Grigorevna Snitkina, divenne più tardi la sua seconda moglie. “Parola d’onore: se qualcuno mi avesse profetizzato tutto questo sei mesi fa, non ci avrei creduto!”, osserva ingenuamente Dostoevskij alla fine di questa lettera.
Tradotto da: Letters of Fyodor Michailovitch Dostoevsky to his family and friends, tr. by E. C. Mayne, London, Chatto & Windus, 1914, pp. 321-332.
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