1. LEVI E CALVINO RISPONDONO ALLE PROVOCAZIONI DI ROSS
Machines that think: nel 1933, un titolo del genere aveva senz’altro un che di provocatorio e, in fondo, lo scopo di «Scientific American», nel pubblicare l’articolo di Thomas Ross, era proprio questo: provocare. L’articolo era preceduto da una nota del direttore della rivista, il quale presentava «il congegno puramente meccanico» in esso descritto come una macchina in grado di manifestare un comportamento che, qualora si fosse osservato in un organismo vivente, si sarebbe detto conseguenza di qualche forma di apprendimento: una “macchina pensante”, dunque. Egli sottolineava come una macchina del genere riaprisse la disputa tra i meccanicisti, i quali ritenevano che la vita e il pensiero fossero fenomeni che prima o poi si sarebbero spiegati con i principi della fisica e della chimica, e i vitalisti, i quali, all’opposto, ritenevano che vita e pensiero potessero essere compresi solo rifacendosi a principi qualitativamente diversi da quelli della fisica e della chimica. Egli, infine, non mancava di far trapelare qualche perplessità, avvertendo che i lettori che non avessero interesse per le «questioni filosofiche come la natura del pensiero» potevano evitare di schierarsi in questa disputa sulla base della macchina di Ross, limitandosi a considerare quest’ultima come «un piacevole motivo di divertimento». Come si poteva pensare, del resto, che una macchina potesse suggerire qualcosa sulla natura del pensiero? Chi, di lì a poco, prende sul serio le provocazioni di Ross sono due che non t’aspetti: Italo Calvino e Primo Levi.
Da buon materialista, in fondo è un chimico, Levi non esclude che la scienza possa arrivare a costruire degli uomini artificiali, o comunque qualcosa di assimilabile a un’intelligenza artificiale, solo che le sue riserve sono tali e tante che queste prospettive finiscono col diventare, suo malgrado, dei meri esercizi intellettuali. Ne Il servo, per esempio, Levi trasloca l’immaginario fantascientifico dal futuro al passato e lo fa evocando una delle figure più emblematiche della modernità: il Golem. Fantoccio d’argilla magicamente animato dai poteri di un leggendario rabbino vissuto nel XVI secolo, il Golem rappresenta per Levi la figura più adatta a interpretare le moderne tecnologie robotiche. Nel corpo e nell’anima quest’Adamo fabbricato dall’uomo ricalca la distinzione che 400 anni più tardi si sarebbe fatta tra hardware (l’argilla di cui è intessuto il suo corpo) e software (gli algoritmi che presiedono al suo comportamento). Ma quel che più conta è che per Levi il Golem è il perfetto precursore del robot perché, proprio come quest’ultimo, esso non può che nascere e morire alla stregua di un servo, cioè non può essere altro da un dispositivo automatico che risponde esattamente, senza alcuna possibilità di errore, alle istruzioni impartitegli dal suo creatore o, se si preferisce, dal suo programmatore.
Un’ipotetica corsa, poi puntualmente verificatasi, all’umanizzazione dei robot sarebbe quindi stata per Levi qualcosa di incomprensibile, visto e considerato che un robot è tale proprio perché retto dal calcolo di chi lo ha programmato e dunque è tale proprio perché, a differenza dell’uomo, coincide con un meccanismo servile. «La differenza fra i golem sta nella precisione e nella completezza delle prescrizioni che sovraintesero al loro costruirsi. […] Ora, il rabbino Arié non era un bestemmiatore, e non si era proposto di creare un secondo Adamo. Non intendeva costruire un uomo, bensì un po’el, o vogliamo dire un lavoratore, un servo fedele e forte e di non troppo discernimento: ciò insomma che nella sua lingua boema si chiama un robot»[1]. Ecco, il golem per Levi è l’esempio perfetto del robot, un esecutore di istruzioni, «qualcosa di un po’ più e di un po’ meglio dei fantocci campanari, e di quelli che vanno in processione quando suonano le ore, sulla facciata del Municipio di Praga»[2]. Imitare l’uomo e la sua vivente intelligenza sulla base dei soli regimi di calcolo è dunque per Levi un’impresa destinata a fallire. Come scriverà altrove: «Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile».
Ma è proprio così? Davvero non c’è alcuna possibilità che dalla freddezza dei circuiti elettrici possa un giorno nascere qualcosa di simile al pensiero o, addirittura, agli affetti degli umani? È davvero così impensabile che dalle rigide combinatorie di una macchina possa sgorgare la multiforme attività di una mente? Calvino, a differenza di Levi, appare possibilista.
In Cibernetica e fantasmi,[3] egli dimostra di centrare alla perfezione quello che col senno di poi si può facilmente individuare come la cifra dell’epoca, e cioè la rivoluzione di linguaggi e di prospettive che le nascenti teorie dell’informazione avrebbero di lì a poco imposto a tutti i campi del sapere. Calvino esprime il nuovo orizzonte culturale attraverso la rimodulazione della dicotomia apparentemente così poco letteraria che oppone il «continuo» al «discreto»: «Nel modo in cui la cultura d’oggi vede il mondo, c’è una tendenza che affiora contemporaneamente da varie parti: il mondo nei suoi vari aspetti viene visto sempre più come discreto e non come continuo. Impiego il termine “discreto” nel senso che ha in matematica: quantità “discreta”, cioè che si compone di parti separate»[4].
Ma qual è il mondo a cui lo scrittore si riferisce? Parla dell’universo, della natura, delle cose che tocchiamo e possiamo sperimentare, o fa cenno anche a quel pezzo di realtà dall’ontologia un po’ più evanescente che solitamente rappresentiamo sotto le insegne della spiritualità, dell’immateriale o del mentale? Il mondo «che si compone di parti separate» abbraccia forse anche il pensiero? Se così fosse le posizioni guardinghe di Levi sull’umanizzazione dei robot sarebbero superate (ma certo non è questione di imbastire competizioni tra chi starebbe “più avanti” di chi) da quelle di Calvino; infatti, se anche il pensiero è una realtà «discreta», composta di parti separate e ben definite, non è poi così improbabile la produzione di «cervelli elettronici» o di «macchine pensanti». «I cervelli elettronici, se sono ancora lungi dal produrre tutte le funzioni di un cervello umano, sono però già in grado di fornirci un modello teorico convincente per i processi più complessi della nostra memoria, delle nostre associazioni mentali, della nostra immaginazione, della nostra coscienza»[5]. Memoria, immaginazione, coscienza, nulla che sia propriamente umano sembra poter restare fuori dalla potenza ingegneristica dei cibernetici: «Shannon, Weiner, von Neumann, Turing, hanno cambiato radicalmente l’immagine dei nostri processi mentali. Al posto di quella nuvola cangiante che portavamo nella testa fino a ieri e del cui addensarsi o disperdersi cercavamo di renderci conto descrivendo impalpabili stati psicologici, umbratili paesaggi dell’anima, al posto di tutto questo oggi sentiamo il velocissimo passaggio di segnali sugli intricati circuiti che collegano i relè, i diodi, i transistor di cui la nostra calotta cranica è stipata»[6]. Sulla scia di Alan Turing, macchine e pensiero appaiono a Calvino come grandezze commensurabili, e questo significa che la millenaria rappresentazione «gassosa» dell’anima non è più così evidente ma necessita di essere rivista, dagli scienziati, dai letterati, dai filosofi e da tutti quelli che molto semplicemente avvertono lo scrupolo di capire il proprio tempo coi mezzi del proprio tempo. «Il pensiero, che fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fiume che scorre o un filo che si sdipana, oppure immagini gassose, come una specie di nuvola, tant’è vero che veniva spesso chiamato “lo spirito”, oggi tendiamo a vederlo come una serie di stati discontinui, di combinazioni di impulsi su un numero finito (un numero enorme ma finito) di organi sensori e di controllo»[7]. Come nel gioco degli scacchi, una gamma pressoché infinita di possibilità può aver origine da un numero finito di elementi: l’incorporeo e il corporeo sembrano così vicini da potersi quasi stringere le mani.
Del resto è esattamente questo lo scopo dichiarato dell’Intelligenza Artificiale, che già nella primavera del 1956, per bocca di John McCarthy, tracciava così le proprie ambizioni: «Si cercherà di costruire macchine in grado di usare il linguaggio, di formare astrazioni e concetti, di migliorare se stesse e risolvere problemi che sono ancora di esclusiva pertinenza degli esseri umani». Se lo spirito è una serie di stati discontinui, vale a dire «discreti», perché continuare a credere (o a voler credere) che i robot debbano per forza obbedire al meccanismo servile di un dispositivo automatico? Perché continuare a tutelare l’esclusività di alcuni domini di «pertinenza degli esseri umani»?
2. MENTE E MATERIA: UNA CONVERSIONE POSSIBILE?
Seppur in una condivisa cornice materialistica, le sensibilità di Levi e di Calvino paradossalmente divergono. Come osserva Pierpaolo Antonello: «Paradossalmente, nella loro comune comprensione discreta della realtà, Calvino e Levi adottano una convergenza opposta, dove lo scrittore Calvino sposa una più radicale anti‐umanistica escatologia materialistica, mentre il chimico Levi è sempre pronto a riaffermare la centralità irriducibile dell’intelligenza umana, la pregnanza a un tempo cognitiva e evolutiva delle passioni umane»[8]. Un paradosso è il sintomo di una verità più complessa di quella che ci si aspetterebbe di afferrare e la paradossale «convergenza opposta» tra Levi e Calvino sembra proprio confermarlo. Le sensibilità dei due scrittori agiscono come la punta di un sismografo, pronto a segnalare lo sgretolarsi di un orizzonte culturale che ha alimentato per secoli la cultura occidentale e che non è esagerato considerare come l’a‐priori, che, da Platone in poi, ha fatto da guida alle interpretazioni che l’uomo ha dato di se stesso, del mondo e di tutto ciò che di volta in volta è venuto a trovarsi in quella zona grigia che non è né l’Altro né il Sé, di quella porzione di indefinito in cui non è difficile oggi riconoscere quei robot così pericolosamente umani da infrangere sistematicamente lo specchio di fronte al quale poter dire a noi stessi “Ecco, questo sono io”. Da Platone in poi, infatti, l’uomo non ha mai smesso di considerare lo spirito, l’anima, la mente, la cultura, come lo stigma della propria umanità. L’a‐priori, fermamente condiviso da tutta questa tradizione, è quindi l’equivalenza tra pensiero e uomo e, di conseguenza, il disconoscimento di qualsiasi convergenza tra ciò che ha pensiero e ciò che non è umano oppure tra ciò che non è umano e quel che solitamente riconduciamo alle creazioni di una mente.
Tanto per citare due esempi piuttosto significativi, basta considerare il manifesto umanista di Pico della Mirandola e l’ontologia dualistica di Cartesio. Nel suo celebre Discorso sulla dignità dell’uomo, Pico scrive: «O Adamo, noi non ti abbiamo dato una sede determinata […]. La natura degli altri viventi già definita è costretta entro leggi da noi prescritte [...]. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu possa tranquillamente darti la forma che vuoi, come libero e sovrano scultore e artefice di te stesso»[9]. Secondo questa prospettiva l’uomo è l’unico essere che non ha natura e che, proprio per questo, a differenza di tutti gli altri è chiamato a darsela da sé grazie al dono del libero arbitro. Insomma, l’uomo è l’eccezione tra le creature, perché è la creatura che dispone del linguaggio, della mente e del pensiero. L’umanesimo cartesiano non è molto dissimile da questa impostazione. Come è noto, Cartesio distingue la totalità del reale tra res cogitans e res extensa e così finisce col distanziare l’uomo e la sua essenza cogitante dalla materialità dell’universo. La sostanza discreta delle cose non solo è qualcosa di diverso dal cogito, ma è addirittura concepita in antitesi a esso, le cose cioè appartengono a una dimensione dell’essere che è agli antipodi di quella che Calvino definirebbe la natura «gassosa» del pensiero.
Ma, come abbiamo visto, a fare la parte dei guastafeste rispetto a questa visione un po’ narcisistica dell’uomo, arrivano nella seconda metà del novecento la cibernetica e la teoria dell’informazione. E non è certo un caso, se è proprio un cibernetico a inquadrare meglio di altri la rivoluzione filosofica e umanistica messa in atto dalla scienza delle macchine pensanti. Attraverso un serrato confronto con i classici della tradizione filosofica e scientifica occidentale, da Platone ad Heisenberg, da Aristotele a Schrödinger, Gottard Günther riesce infatti a tratteggiare un quadro esaustivo della decostruzione operata dalle nuove scienze cognitive nei confronti del (fin lì) solido edificio umanistico. In una pagina particolarmente illuminante della sua Cybernetic Ontology, Günther osserva: «Mente e Materia appartengono a due differenti dimensioni metafisiche; esse non possono mescolarsi. Non vi è tuttavia una distinzione di questo tipo tra lo stato energetico e lo stato materiale dell’Universo. L’equazione di Einstein secondo cui E = mc² stabilisce che l’energia può convertirsi in massa e viceversa. Ma non vi sono formule analoghe per la conversione del pensiero in materia o del significato in energia. Noi conosciamo come un fatto empirico che il nostro cervello è un sistema fisico dove hanno luogo certi processi per molti versi sconosciuti anche se certamente fisici. Per l’osservatore si tratta di una combinazione di dati elettrici e chimici in grado di produrre un fenomeno misterioso che potremmo chiamare senso, coscienza, o autoconsapevolezza. In considerazione di ciò dovremmo eliminare ogni teologia e evitare di parlare di un’anima soprannaturale che risiede nel corpo solo come un ospite, e considerare materia, energia e mente come elementi di una relazione transitiva. In altre parole dovrebbe esserci una formula di conversione tra energia e mente, una formula che sia in stretta analogia con l’equazione di Einstein»[10].
Ma è davvero possibile trovare questa formula di conversione? Günther ci mette in guardia e osserva: «Dal punto di vista della nostra classica logica bivalente (con la sua rigida dicotomia tra enti soggettivi e enti oggettivi) la ricerca di una formula siffatta potrebbe sembrare poco meno che una follia. Il comune denominatore tra Mente e Materia, secondo una tradizione spirituale lunga millenni, è infatti metafisico e non fisico»[11]. Secondo il teorico dell’informazione tedesco, è quindi la struttura profonda della nostra logica che ci ostacola, fino a farla apparire come un’autentica follia, nell’impresa di trovare una formula di conversione tra mente e materia.
Eppure, prima ancora della robotica, prima ancora dei vari “Deep Blue”, “Asimo” o “ECCEROBOT”, prima ancora della cibernetica, è forse possibile rinvenire chi ha trovato una tale formula di convertibilità.
3. ROBOTICA UMANISTA
Il pensatore atteso da Günther, quello capace di oltrepassare l’impianto metafisico sul quale è stato da sempre pensato il rapporto tra Mente e Materia non era di là da venire, ma aveva già iscritto il proprio nome nel solco della storia. A poter essere considerato come lo scopritore della formula di conversione della materia in spirito è infatti Charles Darwin.
Darwin, come Einstein, trova una formula di convertibilità della materia in energia perché realizzare, come lui ha realizzato, una genealogia integralmente materialistica della mente e della morale equivale né più né meno che a tradurre la materialità del biologico nell’immaterialità dello spirituale. Detto in altri termini, Darwin reinventa la nostra percezione del mondo non soltanto perché ci spiega che il mondo che abitiamo è retto da leggi interamente consegnate all’imprevedibilità del tempo, ma anche e soprattutto perché ci suggerisce che gli abitatori di questo mondo sono essi stessi «fabbricati» dal tempo. È grazie all’incontenibile potenza della dimensione diacronica che la variazione e la selezione possono fabbricare nuove forme di vita, è soprattutto e innanzitutto «il tempo che permette la fissazione d’un carattere nuovo», scrive Darwin, anima, mente e pensiero compresi.
Parafrasando, ma non troppo, la metafora lucreziana resa celebre da Blumenberg, si può dire che con Darwin l’uomo scopre d’un colpo che tra sé e il naufragio cui da sempre assiste con fascino e tribolazione non c’è più alcun margine di sicurezza: densità della carne e impalpabilità dell’anima si accoppiano come mai prima s’era azzardato di pensare e diventano così il medesimo frutto di una natura naturans spudoratamente immune a ogni soluzione di continuità. Come ha scritto Patrick Tort: «Con Darwin non ha effettivamente più alcun senso identificare un inizio a partire dal quale la scienza dell’uomo dovrà cessare di essere naturale per diventare umana; […] nel quadro del suo evoluzionismo non c’è infatti più alcuno spazio per la metafisica degli inizi assoluti»[12]. Per tornare alle nostre care «macchine intelligenti», ciò significa che la dimensione gassosa del pensiero non solo può nascere, ma deve necessariamente originarsi da quella estesa della materia biologica e, why not?, fisica. A pensarci bene, nel preferire la bruta ascendenza scimmiesca alla purezza delle idee platoniche Darwin non fa altro che riconoscere un tertium datur tra materia e spirito e, da cibernetico ante litteram quale è, tesse una trama che ricongiunge l’immaterialità dell’idea alla materialità del corpo, tra la sostanzialità estrema del soggetto e quella, altrettanto estrema, dell’oggetto e, in questo modo, compie il «crimine mostruoso» di una «redistribuzione di soggettività». Per Darwin, cioè, non c’è più alcun puro soggetto cogitante da opporre ad altrettanto puri oggetti estesi, ci sono piuttosto diversi gradi di purezza o, fa lo stesso, di impurità.
Ed eccoci di nuovo ai robot, a questi oggetti il cui tasso di complessità cognitiva ci fa dubitare ogni giorno di più sull’opportunità di considerarli alla stregua di soggetti. Un’interessante conferma, non solo semantica, circa la possibilità di avvicinare il pensiero evoluzionistico alla rivoluzione epistemologica introdotta dall’intelligenza delle macchine è la cosiddetta Robotica Evolutiva, una disciplina il cui scopo è esattamente quello di evolvere robot autonomi, cioè dei congegni che siano in grado di mostrare un comportamento adattivo senza alcuna supervisione da parte di terzi, in altre parole senza alcun aiuto da parte degli uomini. Per raggiungere questo obiettivo la Robotica Evolutiva si basa sulle stesse leggi dell’evoluzione biologica: riproduzione, mutazione, selezione. I ricercatori sottopongono al vaglio della selezione (che può essere svolta da un computer o anche da uno sperimentatore) una popolazione di robot le cui caratteristiche, per esempio la morfologia o l’architettura neurale, sono definite in un genoma artificiale fatto di algoritmi. I genotipi dei robot selezionati vengono copiati anche se, proprio come accade in natura, non perfettamente; infatti tramite l’azione di alcuni operatori genetici vengono introdotte delle variazioni casuali nel genotipo dei “figli”, i quali daranno inizio a una seconda generazione e così via finché non si ottiene una generazione di robot dalle prestazioni giudicate particolarmente “adattive”.
I robot si allevano, i robot evolvono: come in un gioco di specchi la vita naturale si riflette nella vita artificiale per conoscere meglio se stessa. In questo gioco il coinvolgimento dei robot risulta essenziale perché, contrariamente a quello che si è ritenuto fino a qualche decennio fa, si è compreso che l’intelligenza non è un processo puro, cioè non è mero calcolo o combinazione simbolica, ma è un processo che nasce dal basso delle esigenze materiali di adattamento all’ambiente. È l’interazione col mondo che fa emergere l’intelligenza nelle sue varie manifestazioni. L’intelligenza ha cioè bisogno di un corpo per poter essere tale.
I robot rappresentano degli strumenti perfetti per simulare e sperimentare quel che potrebbe definirsi la genealogia dell’intelligenza (ma forse sarebbe meglio dire le genealogie delle intelligenze) proprio perché riescono a render conto non di un’intelligenza “astratta” – che non esiste – ma di un’intelligenza concretamente situata in un ambiente. In questo senso i robot sono senz’altro dei sistemi intelligenti “incarnati”, tanto più potenzialmente intelligenti quanto meno vincolati all’esattezza di un meccanismo, tanto meno servili quanto più evolvibili. Ma se i robot evolvono, se possono evolvere la loro “intelligenza”, non dovremmo forse cominciare a parlare di soggetti? Non dovremmo perlomeno provare a riflettere sull’opportunità di redistribuire parte della soggettività che da sempre riconosciamo a noi stessi?
Se è vero quel che insegnava Vico, e cioè che il vero e il fatto coincidono (verum et factum convertuntur), allora l’aspirazione alla creazione di un uomo artificiale non è altro che l’aspirazione alla più autentica conoscenza di sé da parte del sapiens. Il Golem di Levi o il «robot umanoide» del professor MacLeod rappresentano due varianti di un medesimo tema. Tuttavia, a differenza di quel che immaginava Levi, la fabbricazione del Golem oggi punta sull’inesattezza delle leggi della vita piuttosto che sull’esattezza della computazione logica. La robotica si è intanto “darwinizzata” e le macchine sono letteralmente diventate degli enti evolvibili, per niente immuni alla «discreta» dimensione della mente, dello spirito e della soggettività.
Note
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[1] P. LEVI, Il servo, in Vizio di Forma, Einaudi, Torino 1971, p. 98.
[2] Ibidem.
[3]. I. CALVINO, Cibernetica e fantasmi. Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in Saggi, Meridiani Mondadori, Milano 1995.
[4] Ibidem, p. 203
[5] Ibidem, p. 220
[6] Ibidem, p. 205
[7] Ibidem.
[8] P. ANTONELLO, Letteratura e scienza, in Storia d’Italia. Annale di Scienza, a cura di F. Cassata e C. Pogliano, Einaudi, Torino 2011, pp. 923‐948.
[9] PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, Guanda, Parma 2007, pp. 103‐104.
[10] G. GÜNTHER, Cybernetic ontology and transjunctional operations, University of Illinois, Engineering Experiment Station, pp. 13‐14.
[11] Ibidem, p. 18
[12] P. TORT, Darwin e il darwinismo, tr. it. Editori riuniti, Roma 1998, p. 88.
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