“Il soldato inesistente” ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

di Daniela Vitagliano

Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, pubblicato nel 1940, alle soglie della Seconda Guerra mondiale, costituisce un esempio letterario singolare di analisi della figura del soldato, poiché si allontana dalla classica rappresentazione che rimanda generalmente a due meccanismi di base della soggezione psichica: l’idea di autorità e di attrazione sessuale. D’altro canto, come nota F.N. de Martinoir, nella letteratura moderna la figura del soldato ha subito una trasformazione, divenendo marginale nei paesi in cui l’esercito è stato storicamente lo strumento della conquista del potere da parte della borghesia (Francia, Inghilterra, Germania), ma è rimasta sostanzialmente uguale nei paesi che hanno conservato una società aristocratica e contadina come l’Austria, l’antica Russia e l’Italia, cioè un simbolo di lotta e di conquista[1]. Invece Buzzati non vi conferisce queste caratteristiche e il protagonista de Il deserto dei Tartari (così come i suoi colleghi), appare una sorta di marionetta azionata da forze oscure (la cui razionalità sfugge tanto al lettore quanto ai personaggi del libro), immessa in un ingranaggio sempre uguale a stesso, da cui è impossibile uscire. Si tratta di un soldato «inesistente», così come il cavaliere immaginato da Italo Calvino (1959), un’armatura vuota che vive in funzione di regole e di protocolli eseguiti macchinalmente. Ciò permette allo scrittore di soffermarsi ampiamente sull’idea di tempo veicolata da questo modus vivendi, essendo tutte le giornate uguali a se stesse. Questi sviluppi filosofico-esistenziali portano a pensare che il contesto militare costituisca un semplice pretesto per descrivere il disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo, la fuga del tempo e l’attesa incessante di una svolta che renda la vita degna di essere vissuta. Ipotesi suggerita dall’autore stesso, quando afferma di essere rimasto completamente estraneo alla vita politica del proprio paese al punto di aver addirittura ignorato l’arrivo di Mussolini al potere, poiché, secondo lui, la buona letteratura deve essere capace di trasportare il lettore in un universo fantastico o, almeno, in un universo diverso dal suo[2]. Tuttavia noi crediamo che il fatto che Buzzati abbia scelto di fare del suo protagonista un soldato sia una conditio sine qua non allo sviluppo della tematica esistenziale e che egli abbia così, forse involontariamente, invertito una tendenza letteraria proponendo un’immagine del soldato sui generis. Per Buzzati il soldato, in quanto soggetto ad una gerarchia e a delle regole disciplinari ben precise e in quanto addetto a svolgere macchinalmente sempre le stesse funzioni, è l’involucro perfetto per rappresentare il disagio dell’uomo moderno nonché della società italiana contemporanea, da poco sotto il controllo dittatoriale di Mussolini, e infine della società odierna.

In un’intervista rilasciata ad Alberico Sala, Buzzati dichiara che l’idea alla base di questo libro gli era venuta lavorando nella redazione del Corriere della sera[3] e si sofferma lungamente sulla scelta dell’ambiente militare[4]:

L’ambiente militare, specificatamente quello di una fortezza di confine, mi offriva due grandi vantaggi. Primo, quello di esemplificare il tema della speranza e della vita, che passa inutilmente, con una maggiore evidenza, perché la disciplina e le regole militari erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione giornalistica. Pensavo, insomma, che, in un ambiente militare, la mia storia avrebbe potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini. Secondo motivo, il fatto che la vita militare corrispondeva alla mia natura[5].

Altrove dichiara che «la vita militare è quello che dà maggior libertà. Cosa c’è di più bello, di più rassicurante di una vita in cui si sa esattamente che cosa si deve fare in ogni momento e non c’è l’angoscia di prendere delle decisioni?»[6]. Questo tipo di contesto è veicolato dunque da tre caratteristiche, delle quali, le prime due sono abbastanza generiche e avrebbero potuto riguardare qualsiasi altra ambientazione, mentre l’ultima si rivela particolarmente interessante, poiché sembra costituisca una possibile chiave di lettura dell’intero libro. Esso è sin dall’inizio improntato su quest’idea e ci apparirà chiaro, seguendo per grandi linee lo sviluppo della trama, che lo scrittore non avrebbe potuto ambientarlo altrove e che la figura del soldato, seppur svuotata delle sue caratteristiche principali, anzi, proprio per questa ragione, acquisisce uno spessore nuovo, diventando lo specchio della società.

La prima pagina del romanzo

F. N. de Martinoir, nel suo saggio Le métier d’officier et la fuite du temps dans Le désert des Tartares, mette in correlazione la figura del soldato con la tematica temporale, dimostrando come la vita militare sia un rifugio contro la fuga del tempo, non solo perché offre una ritualità al quotidiano, e dunque nel presente, ma anche perché offre la possibilità di vivere in vista di un obiettivo, la guerra, nell’avvenire:

Au combat contre la mort dans la trame du temps, s’oppose ainsi le combat contre l’ennemi et la mort, dans l’espace. Pour un officier, le mouvement du temps est positif, parce que, en principe, tourné vers l’action. L’officier attend quelque chose, le combat, qui est sa justification. […] L’officier, avec cette attente de quelque chose de vague, indéfiniment rejeté en avant, substitue en lui à la conscience du temps qui passe et de l’irréversible, une sorte de point brillant, comme si Giovanni devait tenter de poursuivre quelque chose qui se dérobe à lui, et non essayer de retenir les instants[7] .

È per questo motivo che Giovanni Drogo è così soddisfatto quando, all’inizio del romanzo, è promosso ufficiale ed è assegnato alla Fortezza Bastiani. In seguito, nel momento in cui scoprirà l’essenza della sua nuova vita, la delusione sarà ancora maggiore, poiché le abitudini, i rituali, la guerra, genereranno in lui un senso del dovere che lo schiaccerà per tutta la vita. In fin dei conti la storia è tutta qui: un giovane si reca in una Fortezza, ultimo avamposto di una frontiera desolata, separata da un deserto dal cosiddetto “regno del nord”, da cui dovrebbero arrivare i nemici, i Tartari per l’appunto. Lungo il romanzo non accade niente di memorabile, eccetto due episodi riguardanti la morte di due personaggi, Lazzaro e Angustina, una avvenuta per eccessivo formalismo da parte di una sentinella, per rispettare a tutti i costi il regolamento, l’altra per un capriccio del personaggio stesso, tutto teso a dimostrare di essere in grado di scegliere il proprio destino. Si tratta di due episodi speculari che rappresentano le due spinte opposte cui Drogo è sottomesso, l’incapacità e il desiderio di scegliere la propria sorte. Drogo aspetterà la guerra, o comunque un evento che dia un senso alla sua vita, rimanderà il ritorno, e quando finalmente arriveranno i nemici, sarà troppo malato e dovrà tornarsene a casa, ma non riuscirà a raggiungere nemmeno quest’ultima meta e morirà, solo, in una taverna lungo la strada.

Nel primo periodo del romanzo troviamo già tutti gli elementi fondanti della storia, stilizzati con precisione, tanto che sembrano formulati in maniera statica per rispondere alle cinque W[8], cosa che conferma, tra l’altro, l’attitudine giornalistica dello scrittore: «Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione»[9].

Il tema militaresco è annunciato già nella prima frase, non a caso nominale, quasi a voler marcare l’aspetto cronachistico alla vicenda: «Nominato ufficiale». Il nome e cognome del protagonista (Who?), accanto al verbo “partire” (What?), danno subito l’idea al lettore dell’oggetto del racconto. In seguito si può notare che, sebbene «una mattina di settembre» e «dalla città» dovrebbero denotare precisione (When?-Where?), in verità tutto è lasciato nell’indefinito, nel vago. La conclusione del periodo poi è sorprendente, se si conosce il resto della storia, poiché è messo l’accento sulla temporaneità della carica: «per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione  [10]» (Why?).

Gli incipit dei tre paragrafi successivi sono tutti improntati sulla stessa idea, la premura del protagonista nel voler partire e sulla soddisfazione per l’obiettivo finalmente raggiunto: « Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente »; «Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita»; «Adesso era finalmente ufficiale […]»[11].

Il punto di rottura si ha all’inizio del quarto paragrafo: «Che cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa spensieratezza mentre salutava la madre?»[12]. Segue una serie di domande esistenziali, tra cui una che mette l’accento sulla sensazione che non ci sia alcuno scopo al raggiungimento del suo traguardo: «Perché non gli uscivano dalla bocca, per la madre, che frasi generiche vuote di senso invece che affettuose e tranquillanti parole?»[13]. Questa sorta di flusso di coscienza termina con una frase sinistra e inquietante: «[…] ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno»[14]. Questa prima pagina esemplifica l’intero romanzo: il protagonista è attanagliato da una sensazione indefinita d’irrequietezza e di angoscia per ciò che lo aspetta ed il suo ruolo è completamente svuotato di senso. Il lettore percepisce chiaramente il divario che egli sente tra il suo essere uomo e la carica che riveste. È un divario rinvenibile lungo tutto il romanzo, ma ci sarà, come vedremo, anche un momento in cui sarà colmato, tanto da far decidere a Drogo di restare al forte.

Disciplina, condizionamento e autocondizionamento: dal desiderio di fuggire alla certezza di restare

Appena arrivato, Giovanni Drogo decide di non voler nemmeno mettere piede nella Fortezza, tanto squallida e sinistra. Lo scrittore immerge il lettore in una dimensione onirica sin dall’inizio del viaggio quando il protagonista incontra un vecchio carrettiere e gli chiede informazioni sull’ubicazione del forte, ma costui dice di non conoscere alcuna Fortezza da quelle parti[15]: la meta assume così i tratti indistinti di un sogno, che svanisce a mano a mano che egli vi si avvicina, tanto che l’edificio appare molto più piccolo di quanto sembrasse da lontano. In seguito, quando lui deciderà a restare, la Fortezza si rivelerà di nuovo «complicata ed immensa». S’instaura così una simmetria tra il momento in cui egli parla con il Maggiore Matti, appena arrivato, per chiedergli di poter andare via subito (richiesta che gli sarà negata), e quello in cui parla, dopo quattro mesi, con il medico che gli dovrebbe fornire un certificato medico fasullo grazie al quale lasciare il forte. Questa simmetria è scandita dalla presenza della finestra che assume un valore paradigmatico, poiché, come un filtro, gli consente di avere un altro punto di vista sulla realtà facendogli scoprire dettagli mai notati prima e insinuandogli il dubbio che la strada che sta intraprendendo è sbagliata. Nel primo caso egli scorge la terra del nord che subito cattura la sua attenzione:

Ma sopra il ciglione dell’edificio, lontana, entro ai riverberi meridiani, spuntava una cima rocciosa. Se ne vedeva solo l’estrema punta e in sé non aveva niente di speciale. Pure c’era in quel pezzo di rupe, per Giovanni Drogo, il primo visibile richiamo della terra del Nord, del leggendario regno che incombeva sulla Fortezza. E il resto com’era? […] Ma Drogo ascoltava appena le spiegazioni di Matti, attratto stranamente dal riquadro della finestra, con quel pezzettino di rupe che spuntava sopra il muro di faccia. Il vago sentimento che non riusciva a decifrare gli si insinuava nell’animo; forse una cosa stupida e assurda, una suggestione senza costrutto[16].

Egli s’interroga sulla natura di quest’attrazione, non riuscendo a trovare una spiegazione razionale all’aura mitica che avvolge quel luogo: «Dove mai Drogo aveva già visto quel mondo? C’era forse vissuto in sogno o l’aveva costruito leggendo qualche antica fiaba?»[17]. Essa incarna in verità l’attesa dei nemici, la guerra e il destino che si realizza, facendo acquisire valore e significato alla vita.

Nonostante ciò egli è ancora convinto di voler andar via, ma il Maggiore gli dice che sarebbe meglio farlo in occasione dell’ispezione medica quando potrà farsi redigere un certificato medico fasullo. Così Drogo dopo quattro mesi si trova nello studio del medico, ma è attirato da qualcos’altro:

Drogo ascoltava senza interesse, intento com’era a guardare dalla finestra. […] Mai Drogo si era accorto che la Fortezza fosse così complicata ed immensa. Vide una finestra (o una feritoia?) aperta sulla valle, a quasi incredibile altezza. Lassù dovevano esserci uomini che egli non conosceva, forse anche qualche ufficiale come lui, del quale avrebbe potuto essere amico. […] Vide, fra lanterne e fiaccole, sul fondo livido del cortile, soldati grandissimi e fieri sguainare le baionette. […] Essi erano bellissimi e stavano impietriti, mentre una tromba cominciava a suonare. Gli squilli si allargavano per l’aria vivi e lucenti, penetravano diritti nel cuore[18].

Mentre li osserva, Giovanni ricorda la sua città, la cui immagine impallidisce al confronto con la Fortezza:

 […] un’immagine pallida, vie fragorose sotto la piova, statue di gesso, umidità di caserme, squallide campane, facce stanche e disfatte, pomeriggi senza fine, soffitti sporchi di polvere. Qui invece avanzava la notte grande delle montagne, con le nubi in fuga sulla fortezza, miracolosi presagi. E dal nord, dal settentrione invisibile dietro le mura, Drogo sentiva premere il proprio destino[19].

Il richiamo mitico della terra del nord assume i tratti del destino incombente, incarna l’unico e il solo scopo di una vita, diventando un imperativo categorico, così com’è sottolineato all’inizio del capitolo successivo: «Così doveva accadere, e questo forse era già stabilito da molto tempo[20]», tanto che, nonostante Drogo decida di restare per non perderne l’occasione, aleggia nell’aria la sensazione che questa decisione non sia frutto della sua mente.

Si potrebbe dire che essa è stata innescata dalla gestualità dei soldati, che suscitano in lui ammirazione e desiderio di emulazione. Come rileva Y. Panafieu, la volontà di conformarsi all’immagine nobile – l’immagine mitica dell’eroe che si sacrifica per la patria – lo incita ad abbandonare il suo progetto di partire: è un meccanismo autorepressivo che a mano a mano lo porta a mettere a tacere le verità che egli sente riaffiorare nella mente, di cui è un esempio la lettera alla madre, in cui omette quanto sia stato duro il viaggio e il primo impatto con la Fortezza[21]: «Oh, farle capire lo squallore di quelle mura, quell’aria vaga di punizione ed esilio, quegli uomini stranieri ed assurdi»[22].

Meccanismo castrante che deriva sicuramente dalla disciplina che corrode ogni peculiarità e opprime ogni stimolo autentico. In Surveiller et punir (1975) Foucault fa una riflessione sulla figura del soldato e si sofferma sulla maniera in cui, dalla seconda metà del ’700, esso diventa qualcosa di fabbricato, una sorta di robot in cui una costrizione calcolata prende lentamente possesso di tutto il corpo e si afferma silenziosamente nell’automatismo delle abitudini[23]. Nasce allora una politica di coercizioni, sul corpo, sui suoi elementi, gesti e comportamenti:

Le corps humain entre dans une machinerie de pouvoir qui le fouille, le désarticule et le recompose. […]

Une « anatomie politique », qui est aussi bien une « mécanique du pouvoir », est en train de naître ; elle définit comment on peut avoir prise sur le corps des autres, non pas simplement pour qu’ils fassent ce qu’on désire, mais pour qu’ils opèrent comme on veut, avec les techniques, selon la rapidité et l’efficacité qu’on détermine. La discipline fabrique ainsi des corps soumis et exercés, des corps « dociles ». La discipline majore les forces du corps (en termes économiques dutilité) et diminue ces mêmes forces (en termes politiques dobéissance)[24] .

Il discorso di Foucault esemplifica, attraverso la vita militare, la condizione della società moderna, in cui si è creato un nuovo tipo di individualità a partire dal controllo del corpo, che ha generato una interiorizzazione del controllo disciplinare e un autocondizionamento. Quest’idea si adatta benissimo al caso di Giovanni Drogo, che decide di restare poiché ammaliato dalla gestualità dei soldati. D’altro canto egli ha già interiorizzato il controllo disciplinare e ce ne accorgiamo all’inizio, quando si trova nella stanza del Maggiore che lo invita ad aspettare quattro mesi: «Non è che io voglia. Io non mi permetto di discutere ... voglio dire che ...»[25]. E la risposta del Matti ne è solo una conferma: «E lei sa che valore può avere per la sua carriera. Ma intendiamoci, intendiamoci bene: questo è un semplice mio consiglio, lei è assolutamente libero...»[26]. Come rileva anche Y. Panafieu, si ha la costante sensazione di essere in una trappola, essendo questa libertà solo apparente, come si renderà conto lo stesso Drogo, appena lasciata la stanza:

E se le sottilizzazioni del Matti fossero tutte una commedia? Se in realtà, anche dopo i quattro mesi, non lo avessero più lasciato partire? Se con sofistici pretesti regolamentari gli avessero impedito di rivedere la città? Se avesse dovuto rimanere lassù per anni e anni, e in quella stanza, su quel solitario letto, si fosse dovuta consumare la giovinezza? Che ipotesi assurde, si diceva Drogo, rendendosi conto della loro stoltezza, eppure non riusciva a scacciarle, esse dopo poco tornavano a tentarlo, protette dalla solitudine della notte. […]
Tuttavia una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch’egli se ne accorgesse
[27].

Da una parte egli ha la sensazione che “qualcuno” stia decidendo senza interpellarlo il suo destino, i verbi sono infatti declinati alla terza persona plurale con un “loro” soggetto non ben identificato, dall’altra Drogo si convince che sia egli stesso a forgiare il suo destino, a causa di una forza interiore che non riesce a contrastare. Si tratta in verità di una forza indotta dalla coercizione che viene dall’esterno, l’idea che si debba assolvere la propria funzione. Tuttavia la decisione sarà apparentemente sua, sebbene all’inizio il lettore creda che qualcuno deciderà per lui, che verrà fuori qualche macchinazione del regolamento per cui egli dovrà necessariamente restare, com’è il caso, ad esempio, del racconto buzzatiano, Sette piani[28], in cui un uomo praticamente sano entra in un ospedale per curare una banalità, e dal settimo piano, quello in cui si trovano i degenti più sani, è spostato progressivamente, con vari espedienti, sempre più giù, fino a ritrovarsi in obitorio e a non uscire mai più. Nonostante le differenze, il racconto cristallizza la stessa parabola del romanzo: il dramma interiore vissuto dall’uomo di fronte all’inevitabile precarietà della vita, di fronte cioè all’incapacità psicologica di adattarsi alla realtà della morte o all’idea che il suo futuro non dipende da lui e obbedisce a leggi misteriose contro le quali egli non può nulla. Questa parabola è naturalmente meglio esemplificata nel romanzo, proprio grazie alla presenza del contesto militare. Giovanni si sente all’inizio “padrone” della sua decisione, poiché è entrato nell’ingranaggio senza rendersene conto: nel momento in cui decide di restare è galvanizzato dall’idea di aver scelto il proprio destino, di essere diventato un “vero soldato”. Per un attimo il divario tra l’uomo e la carica che riveste viene colmato:

Drogo sentiva di avere quella notte una fiera e militaresca bellezza, diritto sul ciglio della terrazza, con lo splendido mantello agitato dal vento. Vicino a lui Tronk, infagottato in un largo pastrano, non sembrava neppure un soldato. […]
Drogo rimase solo e si sentì praticamente felice. Assaporava con orgoglio la sua determinazione di restare, l’amaro gusto di lasciare le piccole sicure gioie per un grande bene a lunga e incerta scadenza (e forse c’era sotto il consolante pensiero che avrebbe sempre fatto in tempo a partire). Un presentimento – o era solo speranza? – di cose nobili e grandi lo aveva fatto rimanere lassù, ma poteva anche essere soltanto un rinvio, nulla in fondo restava pregiudicato. Egli aveva tanto tempo davanti. Tutto il buono della vita pareva aspettarlo
[29].

Giovanni Drogo sente di vestire i panni del “vero soldato”, quello caratterizzato da virilità e autorità. Ma questa sensazione non dura che un istante. Ogni paragrafo del capitolo successivo comincia per la parola «Abitudine», ed è subito sminuita l’importanza del “gesto” compiuto da Drogo: «ma c’era già in lui il torpore delle abitudini, la vanità militare, l’amore domestico per le quotidiane mura. Al monotono ritmo del servizio, quattro mesi erano bastati per invischiarlo»[30]. Non c’è niente di eroico, nota Y. Panafieu, nello scegliere di restare solo perché si è rimasti invischiati nellingranaggio dellabitudine[31]. Drogo è quindi stato colto dalla malattia della Fortezza, quella che si era ripromesso di evitare, all’inizio, quando incontra il fratello anziano del sarto, che gli dice di essere rinchiuso nei sotterranei da anni. In quel momento si rende conto che la natura umana è malata, poiché è tutta tesa verso un destino eroico, in un’attesa incessante che forse non finirà mai:

Nel silenzio sotterraneo Drogo allora sentì i colpi del proprio cuore che si era messo a battere forte. […] Dunque anche il vecchietto rintanato nella cantina a fare i conti, anche quell’oscura e umile creatura aspettava un destino eroico? […] così siamo fatti – pareva dire – e mai più guariremo[32] .

L’attesa di un destino è definita spesso come insana, quasi a volerla identificare con una sorta di parassita che si nutre della razionalità dell’uomo. Si legge infatti all’inizio del romanzo: «[…] pareva un’assurda mania[33]», e altrove:

«[…] è una specie di malattia, stia attento lei, signor tenente, che è nuovo, lei che è appena arrivato, stia attento finché è in tempo …»

«Stare attento a che cosa?»

«Ad andarsene appena può, a non prendere la loro mania»[34] .

Tuttavia la “malattia” lo coglierà. D’altronde è molto simile alla “malattia” incomprensibile del protagonista del racconto summenzionato, di fronte alla quale qualsiasi tentativo di prendere una decisione è inattuabile. Una volta intrappolato nell’ingranaggio, invischiato nella spirale dell’autocondizionamento, Drogo diventa parte integrante della Fortezza, pur non sentendosi soldato poiché non può assolvere la sua funzione di soldato, quella di fare la guerra.

L’uomo-Fortezza e l’automatizzazione dell’essere

Drogo continuerà a sentire un divario tra quello che è già stato deciso e quello che può ancora scegliere della sua vita, poiché, come scrive Mignone, nella narrativa di Buzzati, si genera una sorta di “psicologia del sopruso”, dovuta sostanzialmente alla perdita del ruolo di protagonista da parte dell’uomo, non più artefice della propria esistenza:

 […] egli sente che il meccanismo è irrefrenabile, che una volta preso nei denti dell’ingranaggio per lui non vi è più via d’uscita, non più possibilità di salvezza; e sente anche che il meccanismo è tanto più inesorabile e spietato quanto più si vale della facile persuasione, del tacito acconsentimento, di quelle torpide abitudini che non lasciano spazio alla minima ribellione […][35].

Di questa specie di “psicologia del sopruso”, di cui Drogo si sente vittima, diviene simbolo e voce, con la sua mania, la Fortezza, che in questo senso assume il ruolo di vera protagonista del romanzo (non è per caso che Buzzati la citi sempre con l’iniziale maiuscola)[36] .

La Fortezza è effettivamente come un guscio vuoto, ha perso la sua funzionalità ed è diventata il feticcio di una reale costruzione militare con funzione tattica difensiva:

Gli pareva, la Fortezza, uno di quei mondi sconosciuti a cui mai aveva pensato sul serio di poter appartenere, non perché gli sembrassero odiosi, ma perché infinitamente lontani dalla sua solita vita. Un mondo ben più impegnativo, senza alcuno splendore che non fosse quello delle sue geometriche leggi[37] .

Drogo non fa che proiettare in essa il divario che sente nel profondo del suo animo, cosa che spiega anche come sia possibile che, prima di arrivare, da lontano, la vede enorme, simbolo delle sue aspettative, in seguito gli appare piccola e sinistra, incarnazione della delusione e dell’inquietudine che il suo destino sia deciso per sempre, infine di nuovo «complicata e immensa», quando decide di restare. Nel resto del romanzo essa è meno descritta ma sempre presente, quasi come se ormai fosse parte di lui. Infatti, alla fine, quando egli è costretto a partire, poiché, essendo malato, nonostante abbia poco più di cinquant’anni, intralcerebbe l’arrivo dei rinforzi in occasione della guerra imminente, il narratore lo definisce «giallo e consunto[38]», così come i muri della Fortezza.

Da uomo-soldato Drogo è diventato così l’uomo-Fortezza. Egli è un soldato “inesistente”, essendo la sua vita scandita da regole vuote, prive di senso, riflesso dell’incessante logorio quotidiano dell’essere umano, proiettato in una visione teleologica della vita. Il soldato è quindi l’involucro e il soggetto perfetto in cui trasfigurare la condizione esistenziale dell’uomo, e non potrebbe essere altrimenti, essendo il solo essere umano costretto ad ubbidire ciecamente a regole prestabilite e a sottomettersi: «Tutto là dentro era una rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene?»[39]. E ancora:

Tronk inseguiva gli articoli del regolamento, la disciplina matematica, l’orgoglio della responsabilità scrupolosa, e si illudeva che ciò gli bastasse. Pure se gli avessero detto: sempre così fino a che vivi, tutto uguale fino in fondo, anche lui si sarebbe svegliato. Impossibile, avrebbe detto. Qualche cosa di diverso dovrà pure venire, qualche cosa di veramente degno, da poter dire: adesso, anche se è finita, pazienza[40].

Non c’è un obiettivo, l’unico fine è il destino di morte che attende tutti e che non risparmia nessuno, cosa di cui Drogo non riesce a convincersi:

Eppure esistevano uomini – aveva sentito dire – che a un certo punto (strano a dirsi) si mettevano ad aspettare la morte, questa cosa nota ed assurda che non lo poteva riguardare. Drogo sorrideva, pensandoci, e intanto, sollecitato dal freddo, si era messo a camminare[41].

E il mondo chiuso all’interno della fortezza è perfetto per lo svuotamento di ogni ideale, per la fabbricazione di uomini-soldati senza alcun altro scopo nella vita che quello di morire. D’altro canto lo scrive anche Foucault : «La discipline parfois exige la clôture, la spécification d’un lieu hétérogène à tous les autres et fermé sur lui-même. Lieu protégé de la monotonie disciplinaire»[42]. Il controllo disciplinare, secondo il filosofo francese non consiste semplicemente nell’imporre una serie di gesti, ma nell’imporre una relazione efficace tra gesto e attitudine globale del corpo, affinché ci sia un utilizzo sempre crescente e produttivo del tempo[43]. Un tempo pieno di rituali, ma vuoto di scopi.

In quest’ottica conviene notare che la finestra, oltre a dargli uno sguardo sul mondo e a determinare il suo futuro, come si è detto poco sopra, è anche ciò che lo segrega all’interno. Per questo Y. Panafieu parla di trappola e di prigionia:

L’idée de prison est une des notions récurrentes proposées par le roman. Mais c’est surtout l’idée du piège qui s’impose le plus facilement, […]. Et, parmi les appâts les plus fréquemment utilisés pour attirer les futures victimes dans le piège, il y a bien sûr, le sens de l’honneur, la culpabilisation, l’appel aux bons sentiments, et lorsque les voies de l’autoconditionnement ne suffisent plus, on a recours à l’hypocrisie, au mensonge, à des formes de chantage (menaces à peine voilées concernant la carrière, par ex.). D’où parfois l’impression que se tissent quelque part dans l’ombre les fils d’un « obscur complot » [] Et l’épisode de la mort du soldat Lazzari est là pour rappeler que la règle du jeu est ensuite impitoyable : devant le règlement il n’y a plus d’amitié, ni d’humanité, ni de pitié possibles[44].

Infatti, in occasione della morte di Lazzari, avvenuta per un disguido, poiché si era allontanato e non conosceva la nuova parola d’ordine, la sentinella “costretta” a sparargli diventa un automa (le sentinelle sono spesso definite automi[45] o statue[46]) e la reiterazione della stessa frase all’inizio di due paragrafi consecutivi ne sottolinea l’atrocità:

Ma la sentinella non era più Moretto, era semplicemente un soldato con la faccia dura che adesso alzava lentamente il fucile, mirando contro l’amico. Aveva appoggiato lo schioppo alla spalla e con la coda dell’occhio sbirciò il sergente maggiore, invocando silenziosamente un cenno di lasciar stare. Invece Tronk stava sempre immobile e lo fissava severamente. […]

Ma la sentinella non era più il Moretto con cui tutti i camerati scherzavano liberamente, era soltanto una sentinella della Fortezza, in uniforme di panno azzurro scuro con la bandoliera di mascarizzo, assolutamente identica a tutte le altre nella notte, una sentinella qualsiasi che aveva mirato ed ora premeva il grilletto. Sentiva nelle orecchie un rombo e gli parve di udire la voce rauca di Tronk: “Mira giusto!” benché Tronk non avesse fiatato[47].

L’umanità e l’etica sono quindi automaticamente annullate. Motivo per cui, come ha giustamente notato Y. Panafieu, questo romanzo potrebbe essere letto, se si oltrepassano i limiti dell’intenzione autoriale e si considera “l’intenzione del testo”, anche secondo una griglia storico-politica. Non si può, infatti, non essere d’accordo con Panafieu quando scrive che il discorso sull’impotenza diviene anche un discorso sulla potenza, e quindi anche sul potere[48]. Egli rileva come tutto nel testo, a partire dal lessico, rinvia alla militarizzazione accelerata che ha vissuto l’Italia degli anni Trenta, all’epoca delle guerre africane e della fondazione dell’Impero, che annunciano l’intervento delle truppe fasciste in Spagna e la fortificazione dell’alleanza con la Germania nazista, sempre più decisa a vendicare la sconfitta del 1918[49]:

Le monde clos de la forteresse, parfaite image de l’autarcie dont à l’époque l’Italie se glorifiait par toute la force de ses moyens de propagande, est régi par des mécanismes de fonctionnement qui rappellent aussi, à bien des égards, ceux du régime fasciste. Ce sont des mécanismes de censure, destinés à favoriser un conditionnement[50].

D’altronde Buzzati insiste in tutto il romanzo sulla nozione di regolamento, sull’inadeguatezza e sul potere di alcune regole militari, che risultano così ridicole[51], come ad esempio la critica da parte di Tronk, il soldato più rigido e rispettoso delle regole di tutta la Fortezza, delle prescrizioni per il cambio di parola d’ordine[52] (una critica che anticiperà in un certo senso il disguido che darà luogo alla morte di Lazzari). Scrive Panafieu: «Il deserto dei Tartari sarebbe quindi l’eco metaforica, continuamente traslata, della crisi dell’intera nazione italiana di quegli anni, in attesa di un conflitto preparato da tempo ma sempre rimandato»[53]. Come dargli torto, considerando anche il fatto che Buzzati era giornalista. Conviene notare, certo, che la nazionalità italiana, suggerita dai nomi dei personaggi, non è poi sviluppata sul piano del racconto, nell’intento di dare un’idea di universalità: si tratta di soldati “universali”, pronti ad affrontare una guerra universale e, al contempo, tutta personale. Tuttavia ciò non sottrae valore argomentativo alla teoria del critico francese.

Essa è in ogni caso molto convincente e rientra perfettamente nell’idea di autocondizionamento che abbiamo fin qui esposto. Inoltre crediamo che nella parabola disegnata dal libro si potrebbe leggere, secondo la prospettiva storico-politica presentata da Panafieu, anche un’anticipazione della società odierna. Possiamo infatti rintracciare anche una corrispondenza “hegeliana” tra l’evoluzione dello spirito e l’evoluzione della storia (occidentale): mettere in scena una guerra di attesa, alle porte della seconda guerra mondiale, diventa paradigmatico, poiché costituisce l’anticipazione, non di quella guerra, ma dei risultati cui essa avrebbe portato, vivere in un mondo in continua tensione, in cui, piuttosto che agire, si attende.

Tutte queste considerazioni spiegherebbero anche, secondo noi, il motivo per cui Buzzati ha scelto di ambientare il romanzo in una fortezza e non, ad esempio, in un monastero, che potenzialmente prevedrebbe le stesse caratteristiche: isolamento, disciplina, ritualità, monotonia. Se questo è vero, d’altro canto in un monastero non ci sarebbe l’annullamento dell’umanità. Inoltre la vita monastica prevedrebbe anche uno scopo superiore, quello di congiungersi a Dio, ed ogni giornata sarebbe scandita da questa prospettiva mistica. M. Suffran in un saggio ha suggerito la possibilità di leggere nel forte una metafora di un monastero, nel deserto la ricerca dell’assoluto e nell’ultimo viaggio solitario di Drogo, quello verso la morte, la dura redenzione che corona e giustifica lo scacco di una vita consumata nel fervore contemplativo[54]. Noi crediamo piuttosto che il forte sia stato scelto proprio per le sue peculiarità che afferiscono alla vita militare, molto diversa da quella monastica per certi versi, e che la morte di Drogo non abbia niente di mistico, ma anzi dimostri come si possa andare incontro alla morte come incontro ad una battaglia, poiché essa è l’unica meta certa del destino di ogni uomo. Giovanni è stato un soldato inesistente lungo tutto il romanzo, un soldato impossibilitato ad assolvere la sua funzione di soldato, seppure obbediente alle regole che scandiscono la sua vita, poiché è teso verso un fine eroico che non può più esistere. Quando finalmente comprende che la sua funzione di uomo e di soldato può essere assolta solo andando incontro alla morte, unico legante della vita di ogni essere vivente, si sente sollevato, s’illude di avere un ultimo spazio di libertà, poiché la sua unica e sola preoccupazione è sempre stata quella di essere padrone del proprio destino.

In fin dei conti il destino è il vero protagonista del romanzo: disegno prestabilito e/o ciclo di nascita-crescita-morte. Nell’uno e nell’altro caso all’uomo non è consentito decidere, poiché è imprigionato all’interno di una meccanica che lo schiaccia e lo addomestica. D’altro canto questo è anche quello che accade nelle dinamiche di potere, in cui l’apparente margine di libertà concesso all’uomo è solo il frutto di un condizionamento e di un conseguente autocondizionamento, a causa dei quali non è possibile scegliere concretamente in maniera autentica e, per l’appunto, incondizionata.

In quest’ottica Il deserto dei Tartari, facendo del soldato un automa, essere umano svuotato e robotico, sottoposto a rigido controllo e autocontrollo e teso verso un futuro “mitico” ed inattuabile, inverte una tendenza letteraria che vedeva nel soldato un simbolo di forza virile e di conquista.

Inoltre, sebbene l’autore abbia affermato di non voler fare riferimenti concreti alla realtà, crediamo che il suo percorso lavorativo ci autorizzi a intravedere nei personaggi de Il deserto una raffigurazione dell’esercito italiano di quegli anni, caratterizzato da torpore e incapacità dissimulati con reiterate professioni di eroismo e patriottismo. Dato che il libro è stato scritto durante il Fascismo, non si può non pensare che Buzzati si sia servito della trasfigurazione letteraria dell’esercito italiano, al contempo universalizzato e spersonalizzato, per gettare un occhio critico sulle conseguenze sociali cui portava un simile sistema politico. E, andando oltre il microcosmo italiano, se si considerano le dinamiche esistenti nella società contemporanea occidentale, siamo portati a sostenere che proprio questa trasfigurazione gli permetta di proporre, tramite una siffatta immagine della vita militare, una rappresentazione peculiare e all’avanguardia del disagio esistenziale dell’uomo moderno.

 

Come si cita questo articolo?

Daniela Vitagliano, « “Il soldato inesistente” ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati », Italies, 19 | 2015, 297-312.

Daniela Vitagliano, « “Il soldato inesistente” ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati », Italies [En ligne], 19 | 2015, mis en ligne le 21 mars 2016, consulté le 24 septembre 2019. URL : http://journals.openedition.org/italies/5313 ; DOI : 10.4000/italies.5313

L’autore

Daniela Vitagliano

Aix Marseille Université, CAER (Centre Aixois d’Études Romanes), EA 854, 13090, Aix-en-Provence, France.

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[1] Cfr. F. N. de Martinoir, Le métier d’officier et la fuite du temps dans Le désert des Tartares, in Analyses et réflexions sur Le désert des Tartares de Dino Buzzati: la fuite du temps, a cura di Y. Panafieu, Paris, Ellipses, 1981, p. 130-131.

[2] Cfr. G. Geanne, Attente et échec au désert, in AA. VV., Cahiers Buzzati, 1, Paris, Laffont, 1977, p. 34.

[3] «[...] io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no […] e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato a svanire. […] Era insomma un tema abbastanza universale, una macchina nei cui ingranaggi ero preso io, ma che minacciava la stragrande maggioranza dei miei simili», in D. Buzzati, intervista rilasciata ad Alberico Sala, citato in Id., introduzione a Il deserto dei Tartari, Milano, Mondadori, 1966, citato in G. Carnazzi, introduzione, in D. Buzzati, Opere scelte, Milano, Mondadori, 1997, p. XIII.

[4] Cfr. Ibidem, p. XIV.

[5] D. Buzzati, intervista rilasciata ad Alberico Sala, citato in M. Mignone, Anormalità e angoscia nella narrativa di Dino Buzzati, Ravenna, Longo, 1981, p. 114.

 

[6] C. Cedena, Il personaggio Dino Buzzati, «LEspresso», 6 febbraio 1972, citato ibidem, p. 113.

[7] F. N. de Martinoir, op. cit.¸ p. 133-134.

[8] La regola delle cinque W è la regola principale dello stile giornalistico anglosassone. Deriva dall’espressione latina del retore Ermagora di Temno «Quis, quid, quando, ubi, cur, quem ad modum, quibus adminiculis» che definiva i topoi di un tema ed si è modificata nel tempo, attraverso varie fasi.

[9] D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, in Id., Opere scelte, op. cit., p. 7. [Da questo momento DT]

[10] Ibidem. (corsivo nostro)

[11] Ibidem.

[12]  Ibidem. p8.

[13] Ibidem. (corsivo nostro)

[14] Ibidem.

[15] Cfr. Ibidem, p. 10.

[16] Ibidem, p. 26-28.

[17] Ibidem, p. 31-32.

[18] Ibidem, p. 67-68.

[19] Ibidem, p. 69.

[20] Ibidem, p. 70.

[21] Cfr. Y. Panafieu, L’intemporalité et l’histoire dans Le désert des Tartares, in, Lectures de Le désert des Tartares: thème, la fuite du temps, Paris, Belin, 1981, p. 38.

[22] DT, p. 46.

[23] Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, p. 137.

[24] Ibidem, p. 138-140.

[25] DT, p. 25.

[26] Ibidem, p. 28 (corsivo nostro).

[27] Ibidem, p. 36-37.

[28] D. Buzzati, Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1994.

[29] Ibidem, p. 73-74.

[30] Ibidem, p. 71.

[31] Cfr. Y. Panafieu, «L’intemporalité et l’histoire dans Le désert des Tartares», op. cit., p. 43.

[32] Ibidem, p. 55.

[33] Ibidem, p. 62.

[34] Ibidem, p. 54.

[35] M. Mignone, op. cit., p. 98.

[36] Ibidem, p. 115-116.

[37] DT, p. 22.

[38] Ibidem, p. 203.

[39] Ibidem, p. 22.

[40] Ibidem, p. 56.

[41] Ibidem, p. 74.

[42] M. Foucault, op. cit., p. 143.

[43] Cfr. Ibidem, p. 154-156.

[44] Y. Panafieu, «L’intemporalité et l’histoire dans Le désert des Tartares», op. cit., p. 45.

[45] Cfr. DT, p. 22, p. 36.

[46] Cfr. Ibidem, p. 39.

[47] Cfr. Ibidem, p. 95.

[48] Y. Panafieu, «Vous avez dit “Buzzati”, in Lectures de Le désert des Tartares, op. cit., p. 13.

[49] Cfr. Id., «L’intemporalité et l’histoire dans Le désert des Tartares», in Lectures de Le désert des Tartares, op. cit., p. 34.

[50] Ibidem.

[51] Ibidem, p. 35.

[52] Cfr. DT, cap. V.

[53] Y. Panafieu, «Aspetti storici, morali e politici del discorso sull’impotenza», in Dino Buzzati, Firenze, Olschki Editore, 1982, p. 44.

[54] M. Suffran, «L’intuition métaphysique dans l’œuvre de Dino Buzzati», in Cahiers Buzzati, 1, op. cit., p. 68.

L’immagine di apertura è opera di Maureen, ed è distribuita con licenza CC-BY-2.0.