L’arte e il male in Dostoevskij e in Tolstoj
di Caryl Emerson
Professor Emeritus di Lingue e letterature slave all’Università di Princeton
C’è una parte molto bella nella struttura dell’opera di Dostoevskij che forse non è più leggibile al nostro tempo: che il mondo è pieno di malvagi; sono energici e pieni di passione, e competono alla pari con il Bene.
Tutti i grandi romanzi di Dostoevskij sono costruiti intorno a questa competizione. Presentano al lettore uno fra i “casi peggiori”, a cui segue la tormentosa messa alla prova del peccatore. Mentre è sottoposto alla prova, il malvagio giunge a odiare il proprio male (o a disprezzarlo, o a esserne disgustato). Infatti, nell’esperienza di Dostoevskij, anche il criminale più indurito, anche quelli che insistono sulla giustizia (e sulla giustificatezza) dei loro crimini, riconoscono sempre la propria colpa, e dunque il proprio bisogno di perdono. «Avevo il diritto di farlo… ma sono anche colpevole, perché l’ho fatto». Per Dostoevskij, la responsabilità del romanziere è descrivere sia la trasgressione che il pentimento, in modo tale che il lettore sia attratto dall’orrore, si identifichi con esso (cioè possa immaginare di averlo compiuto), e desideri che esso abbia una risposta. Dopo la crisi, se anche l’eroe immaginario non sopravvive, il lettore dovrebbe assemblare, nel crepuscolo degli eventi del romanzo, un mondo personale, dove la speranza è fondata con più sicurezza. Tale era il sentiero cristiano per Dostoevskij.
Ci sono senza dubbio dei momenti molto brutti e gratuitamente sadici, mentre il male viene sondato -- e non solo da parte degli esecutori. Ma Dostoevskij rende ovunque esplicito che l’«oscenità» di tali scritti è nel ruolo dell’osservatore, sia egli uno spettatore all’interno del testo, o, dall’esterno di esso, un lettore. Ognuno di noi ha un appetito voyeuristico, che Dostoevskij trascina alla luce con l’istinto di un giornalista. Vogliamo «sbirciare e vedere», guardare l’ascia che cade e la carne che viene flagellata, e questo desiderio dell’eccitazione mentre si guarda passivamente è quasi peggiore che rischiare e fare personalmente il male. La «scena dello scandalo» è tipicamente dostoevskiana: la gente si affolla sul luogo del disastro e dell’umiliazione altrui.
Un tolstojano la vedrebbe però diversamente. Questi due grandi romanzieri russi, Dostoevskij e Tolstoj, avevano visioni molto diverse sul problema del male e di come potesse essere limitato.
In un cosmo dostoevskiano, è una crisi a spronarci a cambiare. Viviamo più pienamente quando veniamo provati fino allo stremo, e la prova porta alla rivelazione. Degli shock grandi e terribili possono provocare delle conversioni grandi e belle, dei momenti di svolta, dentro e fuori dal romanzo. Così sia gli eroi immaginari che i lettori avvertono l’imperativo etico di provare sempre più cose, più profondamente, più oscuramente. Dostoevskij (come i suoi Raskolnikov ed Ivan Karamazov) è guidato dalla curiosità. Smettere di sondare i limiti delle cose vuol dire diventare uno zotico compiaciuto, spiritualmente inerte. E, sebbene questa curiosità possa sfociare tanto prontamente nella fede quanto nella follia, ne rispettiamo i frutti.
Lev Tolstoj trovava questa logica profondamente errata. Era convinto che non viviamo secondo la curiosità, ma secondo l’abitudine. Uccisioni a colpi d’ascia, stupri di bambini, parricidi: secondo Tolstoj, contemplare questi crimini melodrammatici ed esagerati non è troppo orribile, bensì troppo facile. È molto improbabile che ci troviamo alle prese con dilemmi simili nella nostra vita quotidiana, così possiamo diventare dei voyeur da poltrona: se non incideranno sulla mia vita, posso leggere Dostoevskij e concedermi di confrontare pro e contro puramente teorici. Tolstoj era convinto che l’ideologia, cioè le “idee”, erano delle bussole morali eccezionalmente inaffidabili; in un batter d’occhio, esse potevano essere prostituite agli impulsi corporei e ai bisogni dei sensi, e più filanti erano le parole a sostegno dell’idea, più pericolosa essa diventava. Tolstoj credeva che la vera arte ci infetta con un sentimento, non con un’idea. Nel costruire i suoi romanzi, Tolstoj diffidava dei “sistemi d’idee” tanto quanto Dostoevskij si affidava loro. Questo è un motivo per cui i personaggi di Dostoevskij “sostengono delle cose” (il principe Myškin la mitezza, Ivan Karamazov la sua sfida a Dio, Raskolnikov il diritto di uccidere) e quelli di Tolstoj no: Pierre Bezuchov, Konstantin Levin, perfino Anna Karenina, questa non è gente con un’idea da dimostrare. Ma a che cosa si affida allora Tolstoj?
Si affida a rituali quotidiani e a riflessi salutari, che genereranno buone idee in un organismo umano, come un viaggio a piedi che, se ripetuto, batterà un sentiero nella terra morbida. Poiché, nella sua ottica, noi impariamo non dalla crisi, ma dalle sequenze della vita quotidiana, Tolstoj giunse all’opinione che anche il male può essere soggetto ad abitudine. L’etica matura di Tolstoj, una variante di anarchismo cristiano, insegnava la resistenza non-violenta al male, il pacifismo, il lavoro manuale, la purificazione del corpo (da alcool, tabacco, stimolanti, anestetizzanti): cercava una virtù che salisse dal basso, sfidando convenzioni e istituzioni. Tolstoj sapeva che la gran parte di noi può evitare senza difficoltà dei mali come uccidere il proprio padre, prendere a colpi d’ascia l’usuraia in fondo alla via, o violare una tredicenne -- tutte trame avvincenti, senza dubbio, veri “scoop” con alto valore di mercato --, ma che è molto più difficile evitare le mancanze quotidiane e non criminalizzate: dire una bugia innocua, essere maleducato con tuo marito o tua moglie, uccidere un animale per metterlo in tavola e poi accendersi una sigaretta per aiutarti a dimenticarlo. Per Tolstoj, l’autore ormai vecchio, solo quello che incontriamo nella vita ordinaria è una vera sfida morale, cioè non voyeuristica, perché coinvolge pienamente le nostre azioni e rappresenta una tentazione costante. Poiché si inizia a fare il male fuori dalle crisi, dobbiamo addestrarci prima di tutto ad avere delle abitudini perbene: non siamo abbastanza forti, o abbastanza attenti, per combattere consciamente ogni singola tentazione.
Questo è certamente il grande fossato fra Dostoevskij e Tolstoj. Marca il movimento dei loro romanzi e l’effetto che speravano che questi romanzi avrebbero avuto sui loro lettori. La ricerca eroica del caso estremo da parte di Dostoevskij, come la sua particolare curiosità, è inammissibile per Tolstoj, perché le nostre malvagità si fanno avanti a passi piccoli, invisibili. Cedi alla tentazione di un’idea, portala a compimento, e rischi di creare dei desideri molto cattivi. Ai tolstoiani non piace parlare di censura, preferiscono parlare di infezione seguita da dipendenza, e del loro opposto: disciplina, autolimitazione, e monitorare con cautela che cosa ti dà piacere o gioia. Non provare, potrebbe piacerti -- e poi, siccome il corpo è una potente fonte di energia ed automatismi, potresti trovarti ciecamente in sua balìa. Essere nella stretta di una cattiva abitudine vuol dire perdere seriamente il controllo morale. Afferrare un’arma in preda alla rabbia è puramente un eccesso momentaneo, non può definirti, ma le tue abitudini invece non solo possono, lo fanno.
A questo punto, si potrebbe obiettare che Raskolnikov commette il suo omicidio con l’ascia in una trance, capisce immediatamente che è stato un errore, esce dall’ossessione, viene gettato nella sofferenza e quindi giunge alla consapevolezza morale. Tolstoj, ovviamente, lo ammetterebbe: ma, riguardo a Delitto e castigo, osservò che Raskolnikov non commise l’omicidio il giorno in cui sparse sangue, bensì mentre stava sdraiato sul divano nella sua mansarda lurida, senza fare nulla per la propria vita, un mese dopo l’altro, abituandosi all’idea. E poi, Tolstoj considererebbe tutta questa prova piuttosto esagerata, sensazionalizzata, non quello di cui abbiamo bisogno. Direbbe, assieme all’Elizabeth Costello di J. M. Coetzee: non andarci, e se non vedi un altro posto dove andare, è meglio non scrivere affatto.
Nell’ultimo decennio della sua vita, Dostoevskij divenne un imperialista che predicava il ruolo speciale del popolo russo nel mondo e la colonizzazione a fil di spada dei popoli non cristiani. Ma, nonostante l’etnocentrismo, Dostoevskij non era un imperialista a fini commerciali: era orgoglioso della povertà della Russia, del fatto che i suoi profeti vagabondavano per le sue distese selvagge vestiti di stracci, perché, come disse nel 1880 in un discorso pubblico su Puškin, «Cristo non era forse nato in una mangiatoia?». I ritratti che Dostoevskij fa dei malvagi sono terribili, ma la raggiante sicurezza dei grandi eroi modellati sul Cristo dei suoi ultimi anni -- Alёša Karamazov, il vecchio Zosima --, eclissa i peccatori.
Tolstoj, invece, visse l’ultimo terzo della sua vita da pacifista e da anarchico filosofo. Era devoto al Bene nelle sue manifestazioni più minuscole. Eppure Tolstoj, il grande netovščik o “Signor No” della terra russa, confermò molto poco della vita intorno a lui e vide malvagità ovunque: non solo nella guerra, nel governo, nella Chiesa organizzata, nel canone dell’arte occidentale, ma anche nel denaro, nel sesso, nella carne, nell’alcool, nel tabacco, nelle ferrovie, nella modernizzazione. Tolstoj mantenne fino alla fine la sua curiosità e la sua energia, ma era praticamente privo di estasi.
Dove Dostoevskij e Tolstoj concorderebbero, tuttavia, è sul fatto che la grande arte dovrebbe rallentarci. Dovrebbe prendere il nostro tempo e farci pensare. Entrambi insisterebbero che è un’oscenità, un disastro che l’arte sia stata cooptata dal mercato, dai valori aziendali di velocità, forza, consumismo, gratificazione istantanea seguita dall’esaurimento altrettanto istantaneo, finalizzato all’ulteriore consumo. Aggiustare l’arte al passo senza storia della vita commerciale e ai suoi valori aziendali, nella speranza di renderla “rilevante”, significa svuotarla brutalmente. L’arte non può far tornare indietro l’orologio, certo, ma deve provvedere un’alternativa a quegli orologi che ticchettano oggi, e alla loro comprensione, inevitabilmente limitata, della vita. Tutta l’arte (e specialmente l’arte del grande romanzo) richiede molto tempo; non arriva già pronta, è una battaglia. Sebbene fossero arrivati a questa verità per percorsi diversi, sia Dostoevskij che Tolstoj concorderebbero sul fatto che gli esseri umani non sono fatti per beneficiare da piaceri immediati, fisici o cognitivi. Ciò di cui abbiamo bisogno è di avvertire che l’universo contiene valori o verità da cercare.
In generale, la cultura di massa o di azienda non incoraggia uno sforzo del genere. Entrambi gli scrittori russi dunque considererebbero con sgomento la retorica e la tecnologia della vita occidentale moderna, che non sa cosa fare della durata. Sempre meno fra di noi, osserverebbero, sono inclini a fare lo sforzo di cercare cose elusive. Questa situazione non solo ci spinge a fare il male, quando riusciamo ad essere risvegliati dalla nostra condizione di voyeur per agire; può chiudere la porta al pentimento.
Per Tolstoj, questo era il trionfo del lato animale del sé. Ed era la definizione che Dostoevskij dava dell’inferno.
Tratto da:
Emerson, Caryl. "TOLSTOY AND DOSTOEVSKY ON EVIL-DOING." In All the Same The Words Don't Go Away: Essays on Authors, Heroes, Aesthetics, and Stage Adaptations from the Russian Tradition, 215-22. Brighton, MA, USA: Academic Studies Press, 2011. Accessed March 26, 2020. www.jstor.org/stable/j.ctt21h4wh9.13.
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