Le città invisibili nell’immaginario di Italo Calvino e nelle immagini di Pedro Cano
di Alina Kreisberg
La poesia è ciò che si perde nella traduzione;
ma è anche ciò che si perde con l’interpretazione.
Robert Frost
Il ciclo Le città invisibili di Pedro Cano, composto da cinquantacinque acquerelli, corrispondenti alle cinquantacinque miniature letterarie calviniane, costituì il materiale della mostra itinerante che trovò forse la sede espositiva più idonea nell’autunno del 2005 (8 ottobre – 22 novembre) a Palazzo Vecchio a Firenze, accanto al Primo cortile, con le sue raffigurazioni delle città asburgiche. La mostra consolidò la popolarità dell’artista spagnolo (o meglio ibero-italiano, vista la cittadinanza onoraria conferitagli dalla città di Anguillara) aggiungendo alla sua fama di autore di taccuini di viaggio (nel Mediterraneo, Medioriente e Nordafrica) quella di illustratore di Italo Calvino. Oltre che nelle sedi italiane Le città invisibili sono state esposte in Spagna, a Madrid, Siviglia e Murcia.
Due parole sull’artista. Nato nel 1944 nella provincia spagnola di Murcia, ha iniziato a dipingere come autodidatta dall’età di dieci anni. Ha studiato prima all’Academia San Fernando di Madrid e successivamente all’Accademia Spagnola delle Belle Arti di Roma. È vissuto in Spagna, America Latina e Stati Uniti. È membro della Real Academia de Bellas Artes de Santa María de la Arrixaca ed è stato insignito dal re Juan Carlos dell’Encomienda de Número de la Orden de Isabel la Católica. Ha esposto in tutto il mondo, curando anche le scenografie di alcuni allestimenti teatrali fra cui Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar con la regia di Maurizio Scaparro. Questa esperienza di scenografo si avvicina in parte a quella, intersemiotica, d’illustratore.
L’idea del lavoro su Le città invisibili risale a diversi anni indietro, quando la vedova di Calvino regalò all’artista una prima edizione del volume raccomandandone l’accurata lettura. Calvino, infatti, aveva più volte rilevato la propria affinità con l’opera di Cano. L’episodio è degno di nota poiché la signora Singer, in più occasioni, si era opposta all’idea che Le città venissero illustrate : a suo dire, esse dovevano restare, appunto, invisibili [Yan Nascimbene, comunicazione orale].
La domanda che mi sono posta è fino a che punto si possa parlare, per i quadri di Cano, di illustrazioni vere e proprie, nel senso di traduzione da un testo scritto in un testo visivo, o se invece il suo ciclo e il libro di Calvino rappresentino due opere, certo, parallele e interconnesse, ma comunque autonome. Per rendere più chiaro il quesito, mi rifaccio all’intervista di Brunella Schisa fatta a Edmond Baudoin e riportata su « Il venerdì di Repubblica » [Brunella Schisa, intervista a Edmond Baudoin, illustratore di Fred Vargas, in I quattro fiumi, su « Il venerdì di Repubblica », n. 1163, 02/07/2010, p. 81.]. Alla domanda dell’intervistatrice : « L’incontro tra scrittore e disegnatore può aggiungere qualcosa ai due generi ? », il disegnatore risponde : « Certamente. È sempre un’avventura straordinaria, una specie di viaggio nell’anima dell’altro. Credo che somigli un po’ al lavoro del traduttore, ma ancora più profondo ». Ora, per il ciclo di Cano, è il caso di parlare di una traduzione profonda ? O forse, per essere più esatti, si dovrebbe usare, con Umberto Eco [Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani, 2007, p. 315 et sqq.], il termine « trasmutazione », tenendo conto dell’avvertimento di Fabbri : « Il vero limite della traduzione sarebbe la diversità delle materie dell’espressione »? [Paolo Fabbri, La svolta semiotica, Bari, Laterza, 1998, p. 117.]
Umberto Eco racconta di un gioco alle Belle Statuine:
Un gruppo doveva rappresentare visualmente, e usando il proprio corpo, un’opera d’arte (verbale o non) che l’altro gruppo doveva indovinare […]. La scelta è andata alle Demoiselles d’Avignon di Picasso [...]. La rappresentazione non rendeva pertinenti i colori, i contorni, nulla […] tranne il suggerimento […] che la figura umana veniva deformata secondo un ritmo. Dunque si trattava di un adattamento, col passaggio da materia grafico-cromatica a materia coreografica, che rendeva pertinenti solo […] certi elementi […] del quadro originale. [Umberto Eco, op. cit., p. 315.]
Esiste un’analogia tra il gioco così descritto e l’operazione di Cano ? Quello che accomuna i due cicli, quello di Cano e quello di Calvino, è, in una certa misura, la loro genesi.
Già negli anni Sessanta, Calvino aveva scritto una sceneggiatura (per un film che non fu mai realizzato) incentrata sulle avventure di Marco Polo. Perché allora non riprendere quella figura […] e non contrapporgli un Kublai Kan […] ? [Silvio Perrella, Calvino, Bari, Laterza, 2010, p. 119]
Le stesse Città invisibili sarebbero pertanto frutto di una transcodificazione. Ma questa somiglianza “genetica”, l’operazione di un cambiamento parziale (nel caso di Calvino) o totale (per quanto riguarda Cano) di codici è alquanto superficiale. Ve ne è un’altra, più profonda.
L’idea di un luogo ad una dimensione fu concepita da Calvino nella rubrica dal titolo I viaggi di Gulliver, tenuta sul settimanale « Il Contemporaneo » vent’anni prima della pubblicazione de Le città invisibili nel novembre del 1972, per i tipi della Einaudi nella collana dei « Supercoralli ». Pur trattandosi di una serie piuttosto compatta, essa non fu compresa nella raccolta dei Racconti del 1958.
Della stessa natura era anche un altro manipolo di racconti usciti su « L’Unità » l’anno precedente. […] Gli incipit di alcuni degli scritti del 1954 sembrano ricordare da vicino Le città invisibili, non certo per lo stile, di gran lunga meno elaborato e raffinato, bensì per la vocazione unidimensionale dei singoli componimenti :
C’era un paese in cui era stato adottato uno strano sistema elettorale...
In un paese la classe operaia non contava più nulla e i padroni potevano fare quello che volevano...
C’era un paese dai costumi rilassati...
Un paese viveva sotto l’incubo di un delitto...
In un paese vigeva il rapporto da causa a effetto...
C’era una volta uno strano paese che si chiamava Sant’Alcide dove tutto era piegato al triste e al peggio...[Cf. Francesca Serra, Calvino, Roma, Salerno editrice, 2006, p. 321. Gli articoli citati sono: Le disgrazie di un paese, in « l’Unità » 14/01/1953, p. 3 ; Lo jus primae noctis, in « Il Contemporaneo », 1954, n. 24, p. 10 ; L’adultera, ibidem, n. 26, p. 10 ; La lente d’ingrandimento, ibidem, n. 28, p. 10 ; La domenica delle follie, ibidem, n. 37, p. 10 (Romanzi e racconti,vol. III, pp. 922, 991, 995 e 1005).
L’espressione « vocazione unidimensionale » è di Francesca Serra [Francesca Serra, op. cit., p. 322.]. Sarebbe forse più esatto parlare di “vocazione uniprospettica” : quella di un luogo visto in un’unica ottica.
Come nel caso di Marcovaldo, delle Cosmicomiche, e, più tardi, di Palomar, il libro è nato un po’ alla volta nel corso degli anni, inizialmente come « l’immagine discontinua e ambulante del taccuino »: « […] tutto finiva per trasformarsi in immagini di città : i libri che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo [il corsivo è mio], le discussioni con gli amici » [In una presentazione dattiloscritta del libro, pubblicata in Italo Calvino, Romanzi e Racconti, Milano, Mondadori, « I Meridiani », vol. II, 2001, p. 1361.]. Ma come afferma lo stesso Calvino, tutte queste annotazioni non fanno ancora un libro : « un libro […] è qualcosa con un principio e una fine ». La semplice idea di raccolta di racconti viene nobilitata dalla cornice.
Un discorso analogo vale per la serie pittorica di Pedro Cano : alcune delle sue “città” (come Eufemia) sono antecedenti alla “cornice” del ciclo. Per dare la voce all’artista :
Tratto da : squilibri2.wordpress.com.
Per anni nei miei viaggi ho portato con me questo piccolo libro (Le Città Invisibili di Calvino) e cominciai a fare schizzi negli spazi vuoti che piano piano mi posizionavano in questa geografia di posti inediti ma che mi ricordavano tanti altri posti vissuti nel mio vagabondare per il mondo e che avevo cercato di catturare nei miei taccuini di viaggio. […] Tre anni fa decisi di fare di tutto quel groviglio di segni qualcosa di più preciso e cominciò a delinearsi l’idea che ho scelto per questo lavoro : una specie di taccuino, dove l’immagine non è il risultato di un dialogo con un luogo, ma viene suggerita dalla descrizione di un’altra persona, in questo caso attraverso la parola di Italo Calvino [...]. Percorrere questi luoghi per mano di Calvino e dargli colore e forma è stata una delle avventure più intense della mia vita. Ho usato cinquantacinque fogli di carta fatta a mano, e come unica fonte di colore, l’acquerello.
Le parole di Cano suonano quasi identiche a quelle di Calvino : « Così mi sono portato dietro questo libro delle città negli ultimi anni, scrivendo saltuariamente, un pezzetto per volta, passando attraverso fasi diverse » [Italo Calvino, Presentazione, in Le cittàinvisibili, Milano, Mondadori, 2010, p. VI.].
Passiamo ora agli elementi che hanno dato lo spunto al quesito che mi ero posta.
Il concetto di cornice, nel caso dei due autori, ha comunque una dimensione diversa, prevalentemente formale per l’acquerellista spagnolo e ben più articolata per Calvino. La cornice de Le città invisibili è costituita dal dialogo tra i due protagonisti, che segue una linea di progressione: da una parte, per dichiarazione esplicita dell’autore, il linguaggio del mercante veneziano, col prolungarsi nella sua permanenza in Oriente si affina; dall’altra l’intesa tra i dialoganti, basata sull’affascinamento per il rapporto tra il segno e il suo referente, diventa man mano sempre più profonda. A questo si aggiunga che la successione delle descrizioni di Polo, oltre ad essere strutturata secondo la scansione aritmetica dei rapporti che le collega con il visitatore, raggruppate in undici categorie (le città e la memoria, le città e il desiderio, le città e i segni, le città sottili, le città e gli scambi, le città e gli occhi, le città e il nome, le città e i morti, le città e il cielo, le città continue, le città nascoste), segue anche una successione storica dei modelli della città, dagli splendori dell’antichità classica e dell’oriente favoloso fino alle immagini disarticolate delle megalopoli moderne. Non si tratta di certo di una scansione cronologica ordinata, da manuale di urbanistica: talvolta lo scrittore strizza l’occhio al lettore, facendo spuntare, nel bel mezzo di Dorotea, cinta di mura e dotata di ponti levatoi, delle torri di alluminio. [Per tutti i riferimenti al testo de Le città invisibili, cf. Italo Calvino, Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, « I Meridiani », vol. II , 2001 ; qui p. 364.] Lo stesso Calvino scrisse al proposito :
[…] non è solo verso la fine che la metropoli dei “big numbers” compare nel mio libro; anche ciò che sembra evocazione d’una città arcaica ha senso solo in quanto pensato e scritto con la città di oggi sotto gli occhi. [Italo Calvino, Presentazione, cit., p. IX.]
Ma anche a non voler interpretare la successione cronologica delle scoperte di città di Marco Polo nel senso letterale, niente dell’organizzazione del libro di Calvino, secondo i parametri interpretativi di natura letteraria, si ritrova nel ciclo di Cano. La cornice, oltre all’unità stilistica (che caratterizza comunque l’intera produzione del pittore), è data semplicemente dal riferimento al libro. Le associazioni evocate dalle miniature letterarie non seguono alcun criterio di successione dei modelli di architettura o di vita urbana. Cesare Segre osserva :
[…] il linguaggio verbale è lineare, e perciò si sviluppa nel tempo, mentre l’opera figurativa è spaziale, sicché per parlarne bisogna utilizzare dei commutatori che conferiscano temporalità alle osservazioni da trasformare in un discorso descrittivo della spazialità. […] Se adottiamo un ordine inverso (dal linguaggio verbale a quello figurativo), ci rendiamo conto dei raggiungimenti del linguaggio figurativo nel rappresentare la temporalità […] che parrebbe esclusa dalla natura spaziale e non temporale della figurazione. Il modo più semplice e ovvio di conquistare il tempo alla figurazione consiste nel segmentare la temporalità in fasi statiche successive. È quello che si riscontra nelle storie affrescate sulle pareti di chiese o palazzi: ogni scena rappresentata corrisponde a un momento […] di una vicenda, che dalla somma delle scene risulta in tutto il suo sviluppo temporale. [Cеsare Segre, La pelle di san Bartolomeo, Torino, Einaudi, 2003, pp. XIII-XIV]
Naturalmente, in riferimento al testo di Calvino in cui la dimensione temporale rimane tra gli impliciti, tale modo di procedere è semplicemente precluso.
Calvino raramente descrive: piuttosto evoca. La sua non è una prosa “colorata”, termine di cui si è tante volte abusato in riferimento a vari scrittori. Le città invisibili sono piuttosto un « inimitabile libro di figure senza illustrazioni » [Flavia Ravazzoli, Il testo perpetuo. Studi sui movimenti retorici del linguaggio, Milano, Bompiani, 1991, p. 147.]. È superfluo insistere in questa sede sull’interesse, anche attivo, nutrito dallo scrittore, sin dalla prima giovinezza, per l’espressione figurativa, argomento cui sono stati dedicati diversi brillanti interventi contenuti in questo stesso volume. Eppure ne Le città invisibili i cromonimi scarseggiano e i rari termini di colore sono usati in modo piuttosto convenzionale. Le “descrizioni” consistono principalmente in accumuli paratattici, scanditi da allitterazioni, queste ultime impossibili da rendere con mezzi iconici. I delicati cromatismi degli acquerelli di Cano e la loro economia figurativa sono dunque frutto esclusivo dell’immaginazione del pittore. Niente a che vedere tuttavia con le ricostruzioni utrilliane dei colori reali delle vedute raffigurate dalle cartoline in bianco e nero. Il colore, che sfiora spesso il monocromatismo, viene trasfigurato in un gioco di tonalità e funziona autonomamente, come visualizzazione di quello che per l’artista è il clima che domina il racconto. « Un’avventura straordinaria e intensissima che dà visibilità alle invisibilità di Calvino » [Sebastiano Grasso, Zora? È come una partitura musicale. Viaggio di Pedro Cano nelle metropoli immaginarie di Italo Calvino, « Corriere della sera », 1 novembre 2004, p. 25.], scrisse Sebastiano Grasso a proposito dell’edizione romana della mostra. Cano però non illustra Calvino : per lo più prende lo spunto da frasi o parole isolate del testo, per sviluppare, a partire da esse, un’immagine parallela. Con la metonimia intersemiotica rinuncia anch’egli a descrivere.
La stessa rinuncia alla dimensione descrittiva, ad emulare il figurativo col mezzo letterario, costituisce per Calvino una scelta precisa: le sue città, come si è detto, devono restare invisibili. Questo principio narrativo viene messo in bocca a Kublai Kan : « Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite. Per certo non esisteranno più » [Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. 405.]. È un’obiezione costante rivolta dal sovrano al suo « inarticolato informatore » [Ibidem, p. 386] :
Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa. [Ibidem, p. 377]
Il tuo viaggio si svolge solo nel passato? [Ibidem, p. 378.]
[...] certo le parole servivano meglio degli oggetti e dei gesti per elencare le cose più importanti d’ogni provincia e città: monumenti, mercati, costumi, fauna e flora ; tuttavia quando Polo cominciava a dire come doveva essere la vita in quei luoghi, giorno per giorno, sera dopo sera, le parole gli venivano meno, e a poco a poco tornava a ricorrere a gesti a smorfie, a occhiate. [Ibidem, pp. 386-387.]
Kublai Kan s’era accorto che le città di Marco Polo s’assomigliavano, come se il passaggio dall’una all’altra non implicasse un viaggio ma uno scambio d’elementi. Adesso da ogni città che Marco descriveva, la mente del Gran Kan partiva per suo conto, e smontata la città pezzo per pezzo, la ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti, spostandoli, invertendoli. [Ibidem, p. 391.]
D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, – aveva detto il Kan. – Tu, nei tuoi viaggi, verificherai se esistono e se sono come io le ho pensate. [Ibidem, p. 415.]
Marco Polo non contraddice le critiche dell’imperatore; si difende insistendo sull’impossibilità della descrizione e anche della visione in sé:
[...] non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto. [Ibidem, p. 407.]
Inutilmente […] tenterò di descriverti la città di Zaira. [Ibidem, p. 364.]
Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa […]. L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose. [Ibidem, p. 367.]
La città non si esaurisce in una visione sola :
È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma. [Ibidem, p. 412.]
Della città di Dorotea si può parlare in due maniere. [Ibidem, p. 363.]
In due modi si raggiunge Despina : per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare. [Ibidem, p. 370.]
Francesca Serra osserva :
[...] tra le più costanti immagini in grado di mettere in moto un racconto, si trova in Calvino quella di una città interamente dedita a una sola cosa, che sottostà a una sola regola, che conosce un solo modo di essere. […] Si costruisce una situazione perfettamente blindata, per il gusto di mandarla all’aria con qualche evento o arrivo inatteso […]. Si può dire che Le città invisibili nascano dall’unione di questi due elementi : da una parte l’antico espediente della città univoca, dall’altra una passione, non meno radicata, per la veduta d’insieme di una città. [Francesca Serra, op. cit., p. 322.]
Per trovare un corrispondente figurativo di questa dicotomia, Pedro Cano ricorre spesso ad una sorta di sineddoche intersemiotica : partendo da un singolo dettaglio consente all’immaginazione di chi lo guarda di ricostruire l’insieme da cui è stato estrapolato ; le sue immagini costituiscono l’esatto opposto della meticolosità delle Vedute di città dell’Impero degli Asburgo, con cui confinavano nella mostra fiorentina.
La manifestazione più palese di questo modo di procedere è data dallа rappresentazione di Raissa, una città felice, appena percettibile, racchiusa in un’altra, più presente ed infelice. Tra i segni della felicità celata vi è quello del volo di un francolino, felice perché :
[...] liberato dalla gabbia da un pittore felice d’averlo dipinto piuma per piuma […] nella miniatura di quella pagina del libro. [Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. 483.]
A raffigurare l’idea della felicità è la semplice immagine di due piume colorate al centro di un foglio bianco, nel punto di giuntura tra due pagine di un libro aperto che, nella loro essenzialità, trasmettono perfettamente l’idea di minuscole gioie. [È questa del resto la costante compositiva di tutti e cinquantacinque gli acquerelli : i fogli su cui furono realizzati erano stati piegati in due.]
Nella città di Eufemia, la barca di Cano è quella :
che vi approda con un carico di zenzero e bambagia [e] tornerà a salpare con la stiva colma di pistacchi e semi di papavero. [Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. 385.]
Proprio questo tipo di legame tra il testo e l’immagine è emblematico per il modo di procedere del pittore : la miniatura calviniana parla della soggettività dei legami tra le parole e i loro referenti, donde l’aleatorietà degli scambi verbali. L’artista spagnolo, senza (poter) riprodurre il discorso filosofico in sé, ne riprende un solo elemento testuale, apparentemente marginale, per rendere con mezzi pittorici l’idea della transizione. Lo stesso discorso vale per l’acquerello associato alla città di Isidora «dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine» [Ibidem, p. 363.]. La miniatura di Calvino è una riflessione quasi proustiana sulla soggettività del tempo vissuto. Il quadro ne coglie un solo elemento verbale, a meno di cercarvi un recondito simbolismo personale, quesito su cui mi riservo di tornare.
Il rapporto tra il testo e l’immagine è tuttavia disomogeneo, oscillante tra una semplice illustrazione – per quanto efficace – e relazioni semantiche di notevole complessità.
Il primo polo può essere rappresentato dall’immagine di Fedora :
Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d’un’altra Fedora. [Ibidem, p. 382.]
Lo scrittore, eccezionalmente, fornisce al pittore persino una indicazione cromatica. Un altro esempio dell’approccio “illustrativo” (e non potrebbe essere diversamente, vista l’incisività della “figura senza illustrazione” calviniana) è quello di Ersilia dove :
gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco-e-neri […]. Quando i fili sono tanti che non ci si può passare in mezzo, gli abitanti vanno via : le case vengono smontate ; restano solo i fili e i sostegni dei fili. [Ibidem, p. 422.]
Calvino, affascinato com’era dalla semiotica, sviluppa un ragionamento d’impronta strutturalista, sulla priorità della relazione rispetto agli elementi materiali che la compongono: l’artista non fa altro che conferirgli una forma figurativa. Un commento analogo s’imporrebbe per la città di Bauci, resa invisibile dalle nubi, sorretta da sottili trampoli [Ibidem, p. 423]; per Smeraldina [Ibidem, p. 433.], variazione semiotica sul tema di Venezia. Del resto il tema di Venezia viene ripreso anche in altre immagini, come quella di Fillide e, mediatamente, di Ottavia: quello che agli occhi di uno spettatore appare come un semplice componimento astratto è in realtà una pianta di Venezia. Cano si cala nei panni di Marco Polo, per cui l’archetipo della città resta quella natale. Il ruolo del suo interlocutore viene affidato a chi guarda l’immagine. Quella di Calvino è naturalmente una Venezia atemporale, dell’immaginario collettivo, sicuramente ben diversa dalla Venezia due o trecentesca di Marco Polo, come le sue città, malgrado quanto segnalato prima, non hanno una precisa collocazione temporale.
« Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. – Ne resta una di cui non parli mai. […] – Venezia, – disse il Kan. […] – E di che altro credevi che ti parlassi ? […] Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome ». E Polo : – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. – Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. – Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. [Ibidem, p. 432.]
Ma riprendiamo la tipologia dei quadri di Cano. Nella stessa categoria di “illustrazioni” si potrebbero includere Armilla – che « non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieno » [Ibidem, p. 396] – e Valdrada, costruita « sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra l’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città : una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta » [Ibidem, p. 399], e alcune altre.
Alcuni acquerelli, all’incontrario, sfiorano l’astrattismo. È il caso di Isaura, « città dai mille pozzi » [Ibidem, p. 372] costruita su un lago sepolto, la cui raffigurazione fa quasi pensare ad una illustrazione (impossibile) delle Cosmicomiche o, ancor di più, di Zemrude [Ibidem, p. 412] che cambia di forma a seconda dell’umore di chi la guarda, certamente di Argia « città che invece d’aria ha terra » [Ibidem, p. 463] e, in certa misura, malgrado quanto si è detto prima, anche di Ottavia « città ragnatela » [Ibidem, p. 419]. È questo uno dei casi in cui tra la miniatura letteraria e il suo corrispettivo pittorico esiste un rapporto sottile e raffinato.
Prendiamo come altro esempio la città di Bersabea, definita da Silvio Perrella [Silvio Perrella, op. cit., p. 121] come « una confessione davvero intima ». Secondo il critico [Ibidem, p. 122], a Calvino spetta la cittadinanza onoraria di questa duplice città, celestiale e fecale al tempo stesso, sebbene i suoi ragionamenti successivi sul rapporto tra il testo e le condizioni di salute dello scrittore appaiano, per lo meno, riduttivi. Al di là di questa riserva, vediamo il testo.
Gli abitanti di Bersabea credono che nella loro città esista « un’altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati ». È una Bersabea « sospesa in cielo ». Ma credono anche che « un’altra Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di spregevole e d’indegno […] un pianeta sventolante di scorze di patate, ombrelli sfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bottoni perduti, carte di cioccolatini » [Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. 455].
Cano sceglie, come ci si poteva aspettare, per argomento del suo quadro « la città fecale », ma anziché – come avrebbe fatto un “illustratore” – raffigurare un corpo celeste composto da un groviglio di detriti, dispone ordinatamente gli elementi dell’elencazione calviniana su fogli di carta :
[…] un museo della spazzatura ci introduce alla bellezza di un bottone usato e di un ombrello rotto […]. [Pedro Cano, Le città invisibili,Firenze, Falteri Grafica, 2005, s.n.]
Il discorso dell’artista, riportato nella postfazione al catalogo, farebbe pensare alla transavanguardia, ma le sue immagini sono semplicemente belle all’insegna dell’armonia ritrovata nel mondo dei detriti. Si osservi marginalmente che questo tipo di accostamento spaziale di immagini, corrispettivo figurativo di una elencazione testuale, in Cano è un procedimento ricorrente : si veda la raffigurazione di Tamara, città fatta di insegne, ovvero di segni per antonomasia [Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. 367].
Talvolta il nesso tra i due immaginari si assottiglia ancor di più. Per la città di Zirma, anch’essa facente parte della categoria Le città e i segni [Ibidem, p. 371], nel testo di Calvino si parla delle ridondanze: quelle delle immagini che si ripetono per fissarsi nella memoria e quelle dei ricordi che moltiplicano i segni registrati per conferire alle città lo spessore dell’esistenza. Un lettore “profano” avrebbe pensato ad una ripetizione di elementi visivi – espediente estraneo a Cano, in opposizione alle elencazioni calviniane. Apparentemente l’artista riprende un solo elemento dell’elenco : « […] dove si disegnano tatuaggi sulla pelle ai marinai », ma il sottile tatuaggio sulla schiena dell’uomo raffigura la veduta d’insieme di una città turrita. Il tatuaggio è un ricordo indelebile. Cano lo colloca sulla schiena dell’uomo in modo da renderne la vista accessibile a tutti, tranne che al suo stesso portatore.
Il catalogo della mostra fiorentina riproduce un appunto di lavoro dell’artista, un elenco parziale e non ordinato dei nomi di città e di immagini evocate dai testi, piccolo documento di grande interesse conoscitivo, che consente, tra l’altro, di osservare come il ciclo sia frutto, non tanto di spontanee associazioni visive, ma piuttosto di riflessioni e ripensamenti, documentati del resto anche dagli schizzi tracciati da Cano negli spazi bianchi delle due versioni, italiana e spagnola, del libro di Calvino, per lo più diversissimi dall’acquerello definitivo: Zora, città dei ricordi incancellabili nella mente di chi la visita, scomparsa dalla Terra perché condannata a restare sempre « uguale a se stessa » [Ibidem, p. 369], viene inspiegabilmente associata ad un vassoio, associazione che sembrerebbe legata ad un qualche arcano percorso intellettuale, assolutamente individuale dell’artista. Lo schizzo preliminare chiarisce l’enigma: la bandeja viene raffigurata come una sorta di campana di vetro che serve a conservare [il corsivo è mio] i cibi, formaggi, salumi, ecc., une cloche à fromages, priva di una denominazione specifica in italiano (e, presumibilmente in spagnolo, donde l’incomprensibilità). L’immagine finale, di gran lunga più intuitiva e, si direbbe, opposta, è quella di una sorta di libro mastro, coperto di disegnini e appunti, per la maggior parte cancellati.
Il discorso del tutto analogo vale per Maurilia. Nell’appunto del pittore la città viene associata a dei portali, parola che, come si è visto nel caso di Zora, non compare affatto nel testo calviniano. L’immagine definitiva, molto più intuitiva, è quella delle cartoline d’epoca sbiadite, il leitmotiv della paginetta.
Naturalmente, vi sono dei casi in cui la prima associazione diventa quella prescelta. Cloè nell’immaginazione del pittore assume immediatamente la forma di un ventaglio: ma non è banalmente quello tenuto in mano da una cortigiana nella ridda dei passanti [Ibidem, p. 398]. Sempre nella postfazione al catalogo l’artista spiega :
Gli abitanti di Cloè non stabiliscono contatti, ma un ventaglio seduttore ricorda sguardi fatti di stelle, triangoli e frecce.
Immediata è stata anche l’immagine di Sofronia, associata al « trasloco », adorabile sintesi di una città in cui l’elemento di stabilità è dato dalle giostre e tirasegni dei circhi, mentre i monumenti di pietra e di marmo subiscono continui trasferimenti [Ibidem, p. 409].
Ma se in questo caso la sintesi pittorica è in qualche modo prevedibile, essa lo è molto di meno per la città di Despina, associata, già di primo getto, a dei bicchieri : « In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e chi dal mare » [Ibidem, p. 370]. I due bicchieri sono ricolmi rispettivamente di sabbia e d’acqua, due sostanze emblematiche dei desideri di chi raggiunge la città da direzioni opposte.
Quello di contrapporre due figure simmetriche, in positivo e in negativo, è un procedimento caro a Cano, ripreso, oltre che in Despina, nelle immagini di Zoe, « città fatta soltanto di differenze » [Ibidem, p. 383], in quelle di Moriana che « non ha spessore, consiste solo in un diritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi » [Ibidem, p. 449], di Andria [Ibidem, p. 483], a voler rendere con i mezzi pittorici il principio dicotomico che sottende il discorso calviniano [A proposito delle dicotomie di Calvino, cf. Alberto Asor Rosa, L’insopprimibile duplicità dell’essere in Stile Calvino, Torino, Einaudi, 2001, pp. 39-62].
La raffigurazione di Andria merita un altro commento, conferma della ricchezza di riferimenti nella pittura di Cano : il motivo filiforme che ricopre la sfera argentata della città terrestre riprende la pianta di Gerusalemme, il luogo spirituale per eccellenza nella nostra area culturale [Comunicazione orale dell’artista].
Si è accennato alla postfazione in cui l’artista stesso opera una sorta di ekphrasis, ritraducendo in parole l’idea dominante dei suoi quadri : si tratta in fondo di un testo poco illuminante, sicuramente meno del citato appunto o dei frettolosi schizzi disegnati di getto sulle pagine del libro. Cano prova a cimentarsi con una materia, quella verbale, che non è la sua, tentando in certo senso il corrispondente dell’operazione descrittiva che Calvino si è rifiutato di compiere. Basti un solo esempio :
Passeggiando per Cecilia incontrai, perdutosi nel centro della città, un vecchio pastore con il gregge che ricordava tra l’asfalto gli antichi pascoli.
La malinconica figura del vecchio capraio smarrito, alla pari dello stesso narratore, in una città continua è certamente quella che domina il racconto ; quello che colpisce però nel ritratto che ne dà Cano è la somiglianza con Jorge Luis Borges, maestro del doppio, la cui cecità non è più quella fisica, ma consiste nell’incapacità di distinguere i luoghi urbani. Da notare che nel bozzetto iniziale il volto del protagonista è ben diverso: più rozzo e meno sofferente, e soprattutto con gli occhi curiosi e ben aperti. Nel catalogo il pittore non accenna minimamente al percorso che lo ha portato a questa significativa trasformazione, scaturita in realtà da una esperienza personale [Ibidem]. Alla destra di ogni immagine, due lettere (che corrispondono alla iniziale di ogni nome-città-donna) poste proprio sul luogo dove poggia la mano di chi apre il libro ed estratte da alfabeti per la maggior parte antichi, servono, come scrisse lo stesso Cano, « a testimoniare come due segni assolutamente diversi possano dare lo stesso suono » [Pedro Cano, Le città invisibili, cit., s.n] e questa mi sembra l’essenza stessa della sua operazione.
[Ci sono dei casi in cui i ringraziamenti sono d’obbligo. Il mio va alla cara collega ed amica Lucia Bertolini, le cui indicazioni metodologiche mi sono state di un aiuto inestimabile per affrontare una materia che, malgrado la lunga ed assidua frequentazione dei testi di Calvino, continua ad esulare dall’ambito delle mie competenze.]
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Italies, Revue d’études italiennes, Aix Marseille Université, n° 16, La plume et le crayon. Calvino, l’écriture, le dessin, l’image, 2012
Alina Kreisberg, « Le città invisibili nell’immaginario di Italo Calvino e nelle immagini di Pedro Cano », Italies [En ligne], 16 | 2012, mis en ligne le 01 janvier 2014, consulté le 27 septembre 2019. URL : http://journals.openedition.org/italies/4519 ; DOI : 10.4000/italies.4519
Alina Kreisberg
Università di Pescara
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