Animazione di un’armatura. Il cavaliere inesistente di Italo Calvino e Pino Zac - di Pier Paolo Argiolas
[...] Il cavaliere inesistente (1959) è uno dei romanzi di Italo Calvino confluito nella «trilogia araldica» I nostri antenati assieme a Il visconte dimezzato (1952) e Il barone rampante (1957). Pur chiudendo cronologicamente la trilogia, Il cavaliere è posto idealmente a introduzione più che a epilogo della vicenda dalla ternaria scansione, come confermato nella famosa postfazione auto-analitica del 1960, dal forte impianto teorico, con la quale Calvino inaugura la sua lunga e feconda stagione di ricerca metatestuale e scripturaliste[2]. Nel romanzo, imperniato sulla figura del cavaliere inesistente Agilulfo e su una serie di personaggi giovani che gli ruotano attorno, confluiscono suggestioni tratte dalla contemporaneità e atmosfere di un Medioevo sincretico, in cui si fondono elementi del ciclo bretone e di quello carolingio, l’Ariosto dell’Orlando furioso e il Don Quijote di Cervantes (notevoli le affinità tra gli scudieri Gurdulù e Sancho Panza).
Il cavaliere inesistente omonimo (1971, conosciuto anche come The Nonexistent Knight) è un film a tecnica mista, realizzato con la combinazione di attori in carne ed ossa e disegni animati; l’autore è il disegnatore, sceneggiatore, regista e animatore italiano Giuseppe Zaccaria, più noto come Pino Zac (1930-1985)[3].
Il Cavaliere inesistente recuperato e riattualizzato da Pino Zac è una versione indubbiamente fedele all’originale, tanto nello spirito quanto nel testo, selezionato ma riprodotto alla lettera.
La prima operazione interpretativa e transcodificatoria di Zac consiste nella scelta dei linguaggi coi quali operare. Il regista opta per la fusione nel medesimo prodotto artistico del codice filmico e di quello dell’animazione a fumetti, realizzando un ibrido che coinvolge in totale, con quello letterario, tre codici – quattro con la colonna sonora, funzionale e non esclusivamente esornativa. La tecnica mista e l’animazione totalmente analogica – scelta obbligata in tempi privi di computer-grafica e poveri di effetti speciali – sembra la risorsa più adatta a mantenere o perlomeno evocare la duplicità dei livelli del testo di Calvino – medievale e contemporaneo, favoloso e realistico, narrativo e riflessivo.
La tecnica mista impone la sua specifica grammatica: tutti i personaggi secondari e di contorno appartengono al linguaggio e al mondo dei disegni animati, come gran parte dello sfondo, mentre i personaggi principali sono attori in carne ed ossa, con le uniche significative eccezioni dell’uomo-bestia Gurdulù e del protagonista assoluto della storia, un cavaliere senza macchia – bianca è la sua armatura – che però, curiosamente, non c’è, non esiste, se non in quell’involucro bellico mosso dalla forza di volontà che ne ha preso possesso[4].
L’adattamento di Zac possiede la medesima verve del testo calviniano e cavalca la vicenda con lo stesso trotto e tratto ironico, parodico e leggero. L’adattatore non infrange fabula e intreccio, non altera (ma iper-semantizza, come vedremo) il sistema dei personaggi, non modifica i messaggi del testo, mantiene (e varia) una serie di vistosi e buffi anacronismi[5], conserva l’abbassamento parodico e la connessa quotidianizzazione del medioevo, già di Calvino; riproduce, in sintesi, la fiaba cavalleresca, certamente sui generis, nella sua più immediata manifestazione lineare[6].
In realtà Calvino complica la parabola narrativa piuttosto canonica – in omaggio al modello ariostesco – tramite l’introduzione, nel IV capitolo, di un narratore apparentemente eterodiegetico – suor Teodora – che si paleserà poi come omodiegetico, ossia protagonista della vicenda di cui scrive, identificandosi nella speculare e complementare guerriera Bradamante. La monaca scrittrice assume anche il ruolo di rappresentante testuale dell’autore e istanza narrativa tematizzata, dietro le cui riflessioni metatestuali compare un autore empirico, Calvino, proprio in quel momento al principio di quel cammino artistico che lo avrebbe spesso portato a identificarsi con la voce narrante delle sue opere: «A un certo punto era solo questo rapporto a interessarmi, la mia storia diventava soltanto la storia della penna d’oca della monaca che correva sul foglio bianco» (Calvino 1960: xix)[7]. Vedremo poi come questo vortice metatestuale arrivi a coinvolgere anche la figura del protagonista, il cavaliere – o, meglio, l’armatura, entro la quale si sostanzia la forza di volontà vivificatrice.
Restando però al gioco di specchi tra originale e adattamento, si può osservare quale risposta Zac dia a questo primo, significativo snodo del testo, consistente nella rappresentazione antitetica delle due dimensioni, o meglio, dei due livelli di realtà simulati nel testo, quello referenziale, pur se finzionale, della narrazione e quello, totalmente fantastico, del narrato – livelli, come accennato a proposito dell’agnizione finale ‘suor Teodora-Bradamante’, fatti poi confluire e coincidere l’uno con l’altro nell’atto della scrittura (una sorta di endo o auto mimesi, dunque).
L’attrito tra mondo medievale e moderno e tra finzione e realismo è recuperato da Zac attraverso sistemi oppositivi semplici ma efficaci, fondati su rapporti speculari come quelli tra animazione e recitazione e tra colore e bianco e nero, simili ma non identici alle forme equivalenti del medium letterario.
La categoria cromatica è la prima ad agire sulla scena. Zac antepone la vicenda della monaca narratrice alla narrazione vera e propria, costruendo per lei lo spazio di una cornice metanarrativa contraddistinta anche simbolicamente dalla dimensione cromatica del bianco e nero, poi abbandonata all’inizio della narrazione vera e propria e sostituita da un universo medievale fantastico e multicolore, in grado di restituire al contempo vita a un’esistenza sbiadita e l’agognato colore al pubblico impaziente. In Zac l’incipit accentua il passaggio dalla dimensione reale – bianco e nero dell’informazione televisiva – a quella fantastica del colore ‘cinematografico’, del cinema che racconta storie. L’effetto ottenuto ricorda l’apertura di un sipario, la convenzione teatrale che a quel gesto fa corrispondere l’erezione della cosiddetta terza parete, a garanzia della suspension of disbelief.
NdR: Una decina di anni dopo, il contrasto fra colore e bianco e nero viene riproposto da Tarkovskij in Stalker, dove separa l'interno e l'esterno della Zona.
Nell’incipit del testo calviniano si riscontra la presenza di un differente ma analogo modulo teatrale: la rassegna e presentazione dei personaggi, adoperata nell’episodio iniziale dell’appello dei paladini che coinvolge anche il protagonista Agilulfo:
Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; […] – E voi lì, messo su così in pulito... – disse Carlomagno che, più la guerra durava, meno rispetto della pulizia nei paladini gli capitava di vedere.
– Io sono – la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non una gola ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco, – Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez!
– Aaah... – fece Carlomagno […] – E perché non alzate la celata e non mostrate il vostro viso? […]
La voce uscì netta dal barbazzale. - Perché io non esisto, sire.
[…] L'elmo era vuoto. Nell'armatura bianca dall'iridescente cimiero non c'era dentro nessuno.
(Calvino 1991: 957-958)
Dopo la teatrale presentazione dei personaggi e la preparazione all’azione, che occupa metà della vicenda, si assiste, tanto nel romanzo quanto nel film, all’instaurarsi di un sistema di attese, battaglie e partenze che pongono tutti i personaggi alla ricerca di qualcosa, in un vortice che ha nel cavaliere Agilulfo il suo epicentro e che determina l’avvio di una quête inizialmente amorosa che si risolve, secondo consuetudini comuni a romanzo cavalleresco e bildungsroman, nella ricerca e acquisizione della propria identità[8]. Il tema dominante quindi, più che quello sentimentale, è quello filosofico e sempre attuale dell'essere e dell'apparire, dell’essere o meno consapevoli. Agilulfo, il cavaliere inesistente, appare come armatura ma non è, è volontà senza corpo, mentre Gurdulù al contrario è esistenza senza consapevolezza, appare ma non è; suor Teodora appare quel che non è (è in realtà Bradamante) e solo alla fine acquisisce consapevolezza di sé. La stessa dialettica di essenza/apparenza e consapevolezza/inconsapevolezza coinvolge Sofronia e Bradamante, Rambaldo e Torrismondo, Priscilla e le sue ancelle e i cavalieri del Graal.
Realtà e apparenza rimandano ancora alla dimensione teatrale, al cui aspetto performativo sono profondamente legate entrambe le versioni del Cavaliere. Il romanzo divide infatti le sue opzioni tra dimensione metanarrativa del racconto (e della rappresentazione) e dimensione performativa del raccontato, accentuata, quest’ultima, dall’abbondanza di scene dialogate. Nella versione di Zac la carica performativa del romanzo viene recuperata, nuovamente, in moduli dalla struttura e dal passo indubbiamente teatrali, preferiti anche perché più stranianti di quelli prettamente cinematografici. Questa teatralizzazione coinvolge regia, montaggio e recitazione.
La recitazione degli attori è calata nella bidimensionalità scenografica del disegno animato, spesso statico, come fissa è la camera che inquadra e proietta i protagonisti umani in una scena che tende a coincidere con un palco, non concedendo al montaggio nessun innesto tipicamente cinematografico. L’uso delle luci e la mimica accentuata cooperano all’impressione che sarà necessariamente un sipario a chiudere la storia – e l’immagine finale della versione di Zac, con la silhouette di un castello, ricorda da vicino questa convenzione teatrale.
L’esibita teatralità di costumi e parrucche rafforza l’immagine estetica complessiva dell’adattamento di Zac, ma ha anche un più prosaico ma non meno rilevante valore pratico: permettere la distinzione tra i diversi personaggi in carne ed ossa, impersonati, nel film, da due soli attori, i pressoché sconosciuti Stefano Oppedisano e Hana Ruzickova, interpreti di tutti i ruoli attoriali.
La contrazione (e l’interscambiabilità) degli attori nella versione di Zac, oltre a rimarcare il noto dittico essenza/apparenza, recupera pienamente lo spirito dell’originale e l’andamento binario già del romanzo, popolato da protagonisti, maschili e femminili, dei quali esiste almeno una replica, un doppio speculare. La scelta di Zac svela inoltre come i personaggi di Calvino diano corpo a caratteri predeterminati da un preliminare processo di estrazione, astrazione, suddivisione e combinazione di varianti. Lo schema narratologico sotteso al sistema dei personaggi consiste in quattro coppie antitetiche e complementari: Rambaldo e Torrismondo (la passione amorosa e l’idealismo ascetico), Sofronia e Bradamante (l’attesa e l’accettazione tradizionalmente muliebri, e lo spirito di conquista e d’inquietudine convenzionalmente maschili)[9], i Cavalieri del Graal («l’esistere come esperienza mistica, d’annullamento nel tutto») e il popolo dei Curvaldi («l’esistere come esperienza storica»); e, naturalmente, Agilulfo e Gurdulù, il suo scudiero.
Lo zotico Gurdulù è una sorta di proto-uomo ancora legato a un originario stato di natura; un bifolco un po’ tocco che rappresenta l’esatto opposto del cavaliere inesistente: «O bella! Questo suddito qui che c’è ma non sa d’esserci e quel mio paladino là che sa d’esserci e invece non c’è. Fanno un bel paio, ve lo dico io!» (Calvino 1991: 974)[10]. Sensibile esclusivamente ai piaceri carnali, Gurdulù è dotato di quell’esistenza corporea di cui il cavaliere è privo, ed è privo a sua volta di quell’intelletto volitivo che costituisce l’unico sostegno vitale di Agilulfo.
All’ultima coppia è destinata da Zac sorte diversa nella scelta dei codici da applicare alla strutturazione dei personaggi; l’armatura vuota del cavaliere inesistente e il suo omologo Gurdulù, infatti, sono destinati per motivi diversi ma complementari a sostanziarsi negli altri due codici presenti nella riscrittura filmica di Zac, a ulteriore conferma della coerenza e del rigore dello schema seguito dal regista.
L’essere cartone di Gurdulù lo differenzia dagli altri personaggi-attori in cerca d’identità, ne mantiene la valenza fantastica e intercetta – sviluppandolo al massimo grado – il suo potenziale maraviglioso; la sua totale mancanza di consapevolezza di sé lo porta a immedesimarsi in qualsiasi forma naturale, vivente o meno, che lo circondi, in un vortice metamorfico che lo vede identificarsi tra le altre cose in una rana, in un pero, in della zuppa fumante. Questa risorsa fantastica già del romanzo è pienamente sviluppata da Zac tramite l’inclusione dello scudiero nel codice dell’animazione, che permette una corretta differenziazione rispetto agli altri personaggi umani e consente, soprattutto, la piena realizzazione della tensione metamorfica, affidando al cartone animato la concretizzazione visiva delle nuove forme assunte, non ammissibile sul piano della recitazione umana e solo evocabile su quello della parola scritta.
L’essere automa di Agilulfo rappresenta l’altra grande trovata di Pino Zac. Nulla avrebbe vietato al regista di adoperare all’interno dell’armatura del cavaliere un attore in carne ed ossa di cui nascondere il viso. Tuttavia Zac, non pago dell’aver diretto gli attori, realizzato i disegni e animato le immagini, si riserva nel suo capolavoro anche la completa gestione del personaggio-armatura tramite il ricorso all’animazione a passo uno, una tecnica di ripresa cinematografica e di animazione che sfrutta una particolare cinepresa che impressiona un fotogramma alla volta, rendendo quindi possibile animare in sede di montaggio cartoni animati, pupazzi, oggetti e quant’altro. L’adozione della tecnica dell’animazione a passo uno (stop-motion o frame by frame) permette di concepire e realizzare le scene apparentemente recitate senza bisogno di intermediari umani: con risorse interamente registiche, insomma.
Questa tecnica, più meccanica e meno fluida di altre nella resa dei movimenti, è però dotata di un’indiscutibile valenza straniante, che agisce in una forma assolutamente rispettosa dell’atmosfera del romanzo, del suo titolo e della sua essenza più profonda: lo svilupparsi di una storia fantastica intorno a una corazza vuota. Questo effetto di straniamento conferito dall’oggetto-armatura al protagonista e all’intero film è superiore a quello che si sarebbe ottenuto con l’animazione tradizionale a fumetti, poiché l’inserimento di Agilulfo nel mondo a disegni tipico dell’universo trasfigurato di Pino Zac lo avrebbe reso plausibile, in linea con gli altri personaggi a cartoni, dai quali non avrebbe marcato una significativa distanza; reso invece umano, ma disumanizzato, privo di orbite e meccanico come un automa, finisce con lo stridere sia con l’immagine fumettistica di Gurdulù e degli altri personaggi secondari, sia col realismo pur teatralizzato degli altri interpreti, collocandosi realmente in quel limbo fantastico e al contempo ‘maledetto’ già del romanzo, da cui proviene la sua specialità e condanna: esserci pur non essendoci.
I significati filosofici e simbolici attribuibili alla volontà che si oggettiva attraverso titoli e riconoscimenti in una società in cui l’uomo accosta la propria esistenza a quella di un automa, pur fondamentali per la piena comprensione del testo, non sono tuttavia centrali in questa analisi, come non lo sono stati nella riscrittura interpretativa di Zac. Sembra invece più interessante calare il ruolo del personaggio Agilulfo, letterario e cinematografico, entro i confini della poetica calviniana di quegli anni, in prossimità di una svolta dalle decennali ripercussioni.
Il dispiegarsi di un’intera vicenda e di una serie di esistenze attorno a uno strumento animato da pura forza di volontà – seppur rappresentata nel suo esaurirsi – è anche metafora della costruzione artistica e del potere illimitato posseduto dall’autore: potere tanto vasto da permettere la costruzione di un intreccio articolato attorno a un contenitore vuoto. Questo privilegio concesso all’artista creatore è recepito e fatto proprio da Zac.
La vacuità piena di significati dell’armatura vuota del Cavaliere inesistente assume un ruolo centrale, funge da fulcro narrativo, concettuale e metatestuale dell’opera, rinviando a importanti e poco battuti sentieri critici riguardanti ulteriori aspetti meta-autoriali cui il cavaliere, con la sua stessa, metallica fisicità rimanda ripetutamente[11].
Innanzitutto, vi è la reificazione dell’idea critica, già espressa da Calvino nella rilettura radiofonica de L’orlando furioso, secondo cui i poemi cavallereschi sarebbero architetture narrative legate più allo spostarsi di oggetti investiti di determinate caratteristiche funzionali e ‘ingrananti’ che alle motivazioni psicologiche dei personaggi; l’armatura del cavaliere si inserisce infatti perfettamente nel destino degli altri oggetti a vario titolo bellici che, scambiandosi da un possessore all’altro, determinano lo sviluppo della guerra:
Con quest’usanza d’andare in battaglia carichi di bardature sovrapposte, al primo scontro un catafascio di oggetti disparati casca in terra. Chi pensa più a combattere, allora? La gran lotta è per raccoglierli; e a sera tornati al campo far baratti e mercanteggiamenti. Gira gira è sempre la stessa roba che passa da un campo all’altro e da un reggimento all’altro dello stesso campo; e la guerra cos’è poi se non questo passarsi di mano in mano roba sempre più ammaccata? (Calvino 1991: 982-983)
Agilulfo è protagonista in quanto fattore di scambio, innesco per le altre storie, fulcro di un processo combinatorio; è elemento mobile e unificante, capace di catalizzare le vicende di tutti gli altri coprotagonisti, diversamente ma compattamente dotati di spirito vitale (primordiale, guerresco, dinastico, sentimentale, passionale). Come accade in un certo tipo di teatro d’oggetti, l’armatura vuota del cavaliere agisce come un ingranaggio capace di trasmettere il movimento agli elementi ad esso contigui; in ciò rappresenta una vera e propria machina scaenica, dal ruolo funzionale più che essenziale.
D’altronde, l’esito della vicenda è legato al dissolversi e diventare altro – del protagonista, dell’autore e del genere adoperato – fino a quel salto nel futuro con cui si chiude il romanzo, col congedo finale dal quale sembra affiorare un’ironica presa di distanza tanto dall’esperienza degli Antenati quanto dalla letteratura mimetica tout court. Lo stesso atteggiamento del cavaliere inesistente Agilulfo, con le sue parodiche onorificenze, la perfezione irritante, lo zelo privo di compromessi, la nulla inclinazione ai piaceri della vita – ivi compreso il racconto delle gesta, da lui ricondotto a un mero catalogo di oggetti passati di mano e di patti stipulati, e ridotto in sintesi a un mero avvenimento burocratico, un «normale episodio di servizio» – sembra preludere all’imminente abbandono dell’immaginario medievale; tramite Agilulfo, Calvino ariostescamente include nel piano dell’opera «le donne, i cavalier, l’arme, gli amori», rinunciando però al canto delle «audaci imprese»[12].
Che Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez sia l’emblema dell’opera tutta, e segni l’esaurirsi di un’intera stagione di poetica, è suggerito anche dall’immagine-emblema, appunto, dello stemma effigiato sul suo scudo – chiara allusione alla mise en abyme, estrapolata da André Gide dall’araldica e applicata poi come fenomeno metatestuale in ambito letterario[13]. Con mise en abyme, come noto, si indica la presenza, all’interno di un testo, di una riproduzione in scala ridotta della medesima struttura o immagine del macro-testo che la contiene; tra innumerevoli opzioni percorribili, colpisce la scelta calviniana di affidare quasi filologicamente proprio a uno scudo il suo messaggio metatestuale. Lo scudo di Agilulfo viene così descritto:
Sullo scudo c’era disegnato uno stemma tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato più piccolo ancora. Con disegno sempre più sottile era raffigurato un seguito di manti che si schiudevano uno dentro l’altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa, ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. (Calvino 1991: 957)
In una vertigine di scatole cinesi che contengono l’una la replica rimpicciolita dell’altra, il vuoto al centro dello scudo, immagine ridotta del cavaliere – a sua volta immagine reificata della struttura del testo, imperniata sull’oggetto scenico – rimandano all’assenza dotata di potenzialità narrative di cui Il cavaliere inesistente costituisce l’esito artistico, compiuto secondo il proprio linguaggio specifico sia da Calvino che da Zac. Lo stesso disegno, con «un seguito di manti che si schiudevano uno dentro l’altro», riesce contemporaneamente a dar conto della dimensione teatrale e di quella meta creativa.
È solo con la definitiva e irreversibile non-esistenza del cavaliere, e col lascito dell’armatura, solo ora realmente vuota, che la storia può imboccare il suo sentiero finale. Anche se non più sorretta dalla volontà (narrativa?) che la animava, l’armatura continua a essere l’emblema, assieme allo scudo, di un’intensa fase di elaborazione letteraria, della quale si sancisce la fine:
La traduzione artistica di Pino Zac deve parte del suo fascino alla restituzione fedele di un’atmosfera e di un messaggio, recuperati attraverso scelte connesse al pieno sfruttamento della grammatica e dei materiali dei codici adoperati. L’alto valore estetico dell’adattamento si coniuga con un altrettanto profondo sguardo critico sulle leggi interne della scrittura calviniana.
Costretto ad esprimere in forme definite il non-detto dell’originale, Il Cavaliere inesistente di Pino Zac ne offre un’alternativa e per certi versi più manifesta esemplificazione, meritevole di essere adoperata da diverse categorie di fruitori come autorevole e maneggevole scandaglio interpretativo.
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Sitografia
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Filmografia
Il cavaliere inesistente, Dir. Pino Zac, Italia, 1971, 97 min.
L’autore
Pier Paolo Argiolas
Pier Paolo Argiolas, laureato in Semiotica e dottore di ricerca in Letteratura Comparata, è attualmente assegnista di ricerca del Dipartimento di Filologie e Letterature moderne dell’Università degli Studi di Cagliari e cultore della materia in Letteratura comparata. Si è occupato di scrittura utopica, letteratura potenziale e combinatoria, letteratura e altre arti, letteratura sarda, riscritture e transcodificazioni, forma breve, metatestualità, raccolte a cornice e funzione autoriale, specie in opere e autori otto-novecenteschi.
Tra le sue pubblicazioni:
“L’atlante utopico ne Le città invisibili di Italo Calvino. Mappatura del non-luogo tra l’eretico Fourier e il dibattito novecentesco”: 2008;
“La mitopoiesi geometrica in Flatland di Edwin Abbott”: 2010;
“Sardegna isola delle storie. Le ragioni della scrittura nel cronotopo atzeniano di Passavamo sulla terra leggeri”: 2011;
“Narrazione breve, raccolta a cornice e liquidazione del romanzo. Sperimentazione e tradizione in Calvino e Manganelli”: 2011; “Riconfigurazione di spazi-soglia. Sulle metamorfosi di Pinocchio, tra Collodi e Comencini: 2011.
“Il camerata Pinocchio. Riscrittura in nero”: 2012;
“Tra apertura potenziale e chiusura autoriale. L’ibrido saggistico in Raymond Queneau”: 2012;
“La Storia della Letteratura di Sardegna di Francesco Alziator:
coordinate teoriche e sfondo storico-culturale”: 2012.
Email: pierpaoloargiolas@gmail.com
Come citare questo articolo
Argiolas, Pier Paolo, “Animazione di un’armatura. Il cavaliere inesistente di Italo Calvino e Pino Zac”, Between, II.4 (2012), http://www.Between-journal.it/
Note
[1] Cfr. Hutcheon 2006; Sabouraud 2006; Rutelli 2004; Dusi 2003; Eco 2003; Dusi – Nergaard 2002.
[2] L’operazione analitica condotta nella postfazione, un darsi completo alle «discipline dell’analisi e della dissezione» evocate in seguito (1967) in Per chi si scrive? (Lo scaffale ipotetico), non mancò di suscitare forti perplessità nei protagonisti del dibattito letterario del tempo – particolarmente duro fu il giudizio di Almansi 1971. Rispetto alla gran parte della produzione calviniana, la silloge è tra le meno ricche di incursioni critiche, forse anche a causa del senso di esaustività trasmesso dalla stessa postfazione. Si segnalano comunque Lacirignola 2010; Barenghi 2007; Bucciantini 2007; Deidier 2004; Hagen 2002; Asor Rosa 2001; Lavagetto 2001; Bertone 1994; Milanini 1990.
[3] Creatore, a soli vent’anni, di Gatto Filippo, prima striscia a fumetti italiana serializzata su un quotidiano (Paese Sera), Pino Zac realizza poi una ventina di cortometraggi d’animazione, tra i quali episodi di La donna è una cosa meravigliosa (1964) e Capriccio all'italiana (1968); nel 1965 esordisce da regista col film Gatto Filippo: licenza d'incidere. Disegnatore satirico della prestigiosa rivista francese Le canard enchaîné dal 1971 al 1985, nel 1972 pubblica una versione a fumetti dell'Orlando Furioso sulla rivista Eureka e realizza l’animazione de La secchia rapita per la prima serie di trasmissioni Rai ‘Gulp! i fumetti in TV’. Appartenente alla stessa scuola di Bruno Bozzetto, dal quale pur si distingue per alcune scelte formali e di poetica, Pino Zac fonda nel 1977 con Vauro Senesi il settimanale di satira politica Il Male. Nel 1981 illustra in Francia una rara edizione di Tarocchi, i Tarot de l'an 2000; nel 1983 pubblica pochi numeri del raffinato giornale satirico L'anamorfico. Spirito irriverente, antiborghese e iconoclasta, andò incontro a una serie quasi interminabile di denunce: oltraggio a capo di Stato, vilipendio della religione e della magistratura, oscenità. Per queste e altre informazioni cfr. Vecellio 2000 e Cosulich 1985. Per una scheda tecnica del film cfr. www.Cinematografo.it e www.TntVillage.org, web (ultimo accesso: 30.08.2012); per le recensioni cfr. Morandini 2011, Mereghetti 2010 e Motta 2007.
[4] Il cavaliere inesistente, al pari degli altri due romanzi della trilogia, appartiene alla fase calviniana, seppur conclusiva, della reificazione di metafore verbali a fini narrativi – con intento, cioè, mitopoietico: l’uomo dimidiato, quello con la testa tra le nuvole e quello inesistente.
[5] Zac pone la tour Eiffel a Parigi, le antenne televisive sulle tende dell’accampamento dei paladini, i simboli nazisti sui Cavalieri del Graal e la Marsigliese in bocca a Carlo Magno.
[6] Per una sintetica ma approfondita analisi della struttura dell’opera, del sistema dei personaggi e del livello metanarrativo cfr. Hagen 2002.
[7] La fusione tra la guerriera Bradamante e la scrivana suor Teodora (un’unità scissa e poi ricomposta, più che una coppia) mira a saldare piano della vita e piano del racconto, indole guerriera e attitudine riflessiva e contemplativa, furia del coinvolgimento e pathos della distanza: tutte caratteristiche ben note del profilo d’autore che Calvino ha tracciato di sé attraverso molti sui personaggi-emblemi; si pensi al San Gerolamo/San Giorgio de La taverna dei destini incrociati o all’Eremita e al Bagatto de Il castello dei destini incrociati, a Qfwfq de Le cosmicomiche, al Marco Polo (e al Kan) de Le città invisibili, al signor Palomar dell’omonimo volumetto o all’intero impianto strutturale e diegetico di Se una notte d’inverno un viaggiatore.
[8] Agilulfo parte con lo scudiero Gurdulù per rintracciare la vergine Sofronia e dimostrare la legittimità dal suo titolo; Torrismondo parte in cerca di Cavalieri del Graal; Bradamante insegue il suo amato Agilulfo ed è a sua volta inseguita da Rambaldo; l’autore infine (tramite il suo rappresentante testuale suor Teodora) insegue la conclusione dell’opera.
[9] Bradamante, come detto, è a sua volta re-duplicata nella narratrice suor Teodora, che la completa: «Sì, libro. Suor Teodora che narrava questa storia e la guerriera Bradamante siamo la stessa donna. Un po’ galoppo per i campi di guerra tra duelli e amori, un po’ mi chiudo nei conventi, meditando e vergando le storie occorsemi, per cercare di capirle» (Calvino 1991: 1064).
[10] La specularità di questa coppia nel testo calviniano è così esplicita da costituirne una pecca; il ritmo ellittico di opere più mature come Le città invisibili è qui sacrificato all’altare dell’evidenza e dell’eccessiva didascalicità.
[11] Anche il cavaliere, come suor Teodora/Bradamante, è rappresentante testuale della figura dell’autore; le «esatte occupazioni» con le quali il protagonista vince «l’inquietudine e il marasma» – contare, mettere in fila, ordinare foglie, pietre, lance, pigne – rimandano alle idee calviniane sulla possibilità di dare senso al mondo solo tramite l’attività sistematizzatrice della letteratura, specie se intesa come gioco fantastico e metatestuale costruito more geometrico; le «esatte occupazioni» rinviano inoltre ad alcuni tratti stilistici tipici dell’autore: «La figura dell’elencazione o enumerazione protratta, fondendo esattezza analitica e velocità di scansione, è veramente una delle costanti segnaletiche dello stile di Calvino» (Mengaldo 1988: 217).
[12] Si legge nel Cavaliere: «Carlomagno, levatosi dal banchetto un po’ traballante sulle gambe, sentite tutte quelle notizie di improvvise partenze, s’avviava al padiglione reale e pensava ai tempi in cui a partire erano Astolfo, Rinaldo, Guidon Selvaggio, Orlando, per imprese che finivano poi nei cantari dei poeti, mentre adesso non c’era verso di muoverli di qui a lì, quei veterani, tranne che per gli stretti obblighi del servizio» (Calvino 1991: 1020-1021).
[13] Cfr. Dallenbach 1977; Berta 2006.
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