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Etica e scienza: la lezione di Frankenstein

di

Benjamin H Chin-Yee

A quasi due secoli dalla sua pubblicazione, il Frankenstein di Mary Shelley (o Il moderno Prometeo, pubblicato nel 1818) ha assunto il ruolo di un mito popolare per la nostra cultura tecnico-scientifica. Frankenstein cattura la tensione permanente fra visioni utopiche della scienza e quelle, potenzialmente distopiche, delle sue conseguenze.[1] Letto come una critica romantica del razionalismo illuminista, Frankenstein oggi è spesso citato come un allarme davanti ai rischi posti da una ricerca sfrenata del sapere scientifico e del dominio sulla natura.[2] Una lettura più sfumata del romanzo di Shelley, tuttavia, non suggerisce un’opposizione categorica alla scienza.

La vicenda di Frankenstein è ormai familiare: si tratta della storia dello scienziato Victor Frankenstein, che, guidato da un desiderio di scoprire i misteri della vita, si sforza di creare un essere umano. Produce invece un mostro, che porta al suo creatore sofferenza e rovina. Le motivazioni di Frankenstein non sono estranee alla scienza medica moderna: spera che i suoi esperimenti bandiranno «le malattie dal quadro umano» e rinnoveranno «la vita dove la morte ha apparentemente votato il corpo alla corruzione». La caduta del protagonista deriverà dalla ricerca fanatica della conoscenza e dall’incapacità di riconoscere le responsabilità sociali e morali che comporta la sua ricerca. L’esperimento fatale – l’animazione della sua costruzione cadaverica – è necessario per creare il suo essere: tuttavia, è il conseguente rifiuto da parte dello scienziato della sua creatura, unito ai pregiudizi della società, a generare il mostro che semina distruzione sul genere umano.

Boris Karloff nei panni della Creatura nel film Frankenstein del 1931.

La narrazione di Shelley sfata il cosiddetto “mito della purezza”, la visione che distingue fra scienza “pura” e scienza applicata o tecnologia, con la prima che opera isolata dai valori sociali, e la seconda come unico momento di scelta etica.[3] La tecnologia di Frankenstein, che gli consente di impregnare di vita la materia morta, lo precipita nell’incertezza etica. Eppure, fin dall’inizio le sue ricerche sono guidate da una morale utilitaria di miglioramento sociale, ottenuto attraverso il controllo sulla natura. La sua ricerca non è “pura”, ma, piuttosto, formata sui valori illuministici – che la vita possa essere creata, la morte sopraffatta, la natura sconfitta. Come proclama Frankenstein, «Vita e morte mi apparivano come dei vincoli ideali, che prima avrei dovuto sfondare, e riversare un torrente di luce nel nostro mondo oscuro». Shelley critica questi valori: «deve essere spaventoso: perché nulla può essere più spaventoso dell’effetto di ogni sforzo umano per imitare il meccanismo stupendo del Creatore del mondo».

Frankenstein mostra come la tecnologia non sia mai l’applicazione pura di una scienza libera di valori, ma, piuttosto, l’espressione di un continuum di fattori morali e sociali che formano tutti gli stadi della ricerca scientifica. Questa lezione è importante in un’epoca in cui accettiamo volentieri i benefici delle tecnologie, ma in cui dobbiamo anche riflettere sui valori che esse incarnano. Per esempio, le tecnologie della riproduzione assistita hanno certamente portato gioia a molti genitori incapaci di concepire; tuttavia, dobbiamo anche riconoscere come le nozioni socioculturali della maternità influenzino la ricerca, che potrebbe inquadrare la gravidanza come l’adempimento di un destino biologico e imporre così alle donne pressioni “pronataliste”.[4] All’altro lato dello spettro, le tecnologie mediche offrono la possibilità di prolungare la vita umana; tuttavia, questa ricerca di longevità solleva delle preoccupazioni riguardo alla medicalizzazione dell’invecchiamento e agli scopi delle cure a fine vita. Frankenstein ci offre un momento di pausa, in cui riflettere sui tipi di conoscenza che vogliamo ricercare per creare tecnologie mediche che migliorino – piuttosto che danneggiare – la vita umana.

Incisione di Theodore von Holst per il frontespizio dell'edizione di Frankenstein del 1831.

Frankenstein cattura questo dualismo della tecnologia, da cui nascono sia danno che beneficio. Contrariamente a certi romantici, infatti, Shelley non si pone a favore dell’abbandono della scienza e della tecnologia e al ritorno a uno “stato di natura” rousseauiano. Proprio come oggi il concetto di “naturale” non è più una guida per l’etica normativa, così la narrazione di Shelley suggerisce che il ritorno a uno “stato di natura” idealizzato sia non solo impossibile, ma anche indesiderabile. La realtà della Creatura, prima di entrare nella società umana, è tutt’altro che ideale: «Ero un povero, incapace, miserabile disgraziato; non sapevo nulla e non potevo distinguere nulla; ma, sentendo il dolore pervadermi da tutti i lati, mi sedetti e piansi.» La tecnologia può migliorare la vita umana da questo stato primitivo. La creatura scopre il fuoco e viene «sopraffatto dalla gioia al tepore», deliziandosi del dono di Prometeo. Tuttavia, presto impara che il fuoco non porta solo piacere, ma anche dolore e distruzione: «Che strano, pensò, che la stessa causa debba produrre effetti tanto opposti!», bruciando la sua mano, e, più tardi, dando fuoco al cottage della famiglia De Lacey quando questi lo respingono. Come il fuoco, la tecnologia dispensatrice di vita di Frankenstein offre una speranza utilitaria, ma viene accompagnata da conseguenze dannose. Shelley cattura questi aspetti contrastanti della conoscenza scientifica, che è in grado di migliorare le condizioni dell’umanità, ma minaccia anche di renderla infelice.

Nonostante qualche sapientone possa alludere a distopie alla Frankenstein per supportare affermazioni esagerate riguardo ai pericoli della scienza tecnica, il romanzo di Shelley dovrebbe essere letto come un caso di studio più bilanciato riguardante una ricerca scientifica andata storta e che parla a favore di una presa di responsabilità sociale nella scienza e dell’applicazione etica della tecnologia. Quasi duecento anni dopo, la tragica storia di Shelley continua dunque a evocare paure e speranze fondate sulla scienza, impartendo lezioni importanti per la ricerca scientifica e la tecnologia medica.

 

[1] SHELLEY M. Frankenstein; or, The Modern Prometheus. Londra, Penguin Books; 1985.

[2] DAVIES H. Can Mary Shelley’s Frankenstein be read as an early research ethics text? Med Humanities. 2004;30:32-5

[3] KITCHER P. Science, Truth, and Democracy. Oxford: Oxford University Press; 2001.

[4] PURDY LM. Assisted Reproduction, Prenatal Testing, and Sex Selection. In: KUHSE H, SINGER P, editors. A Companion to Bioethics. Malden: Wiley-Blackwell; 2009. p. 178-92

L'autore

Benjamin H Chin-Yee, BSc, MD/MA Candidate, Faculty of Medicine, and Institute for the History and Philosophy of Science and Technology, University of Toronto. Altre pubblicazioni.

Questo post è la traduzione dell'articolo: Benjamin Chin-Yee, In Retrospect: Frankenstein and Medical Technology, "University of Toronto medical journal" 12/2014; 92(1), pubblicato con licenza CC-BY 3.0 secondo quanto indicizzato dalla DOAJ. Il testo è stato lievemente rimaneggiato per garantirne la scorrevolezza, senza che ne venisse modificato il senso. L'immagine di thumbnail è una fotografia realizzata da Miguel Mendez di Malahide, Irlanda (Wax Museum PlusUploaded by russavia) [<a href="http://creativecommons.org/licenses/by/2.0">CC BY 2.0</a>], <a href="https://commons.wikimedia.org/wiki/File%3AWax_Museum_Plus_(6344812251).jpg">via Wikimedia Commons</a>

Mary Wollstonecraft Shelley (1797-1851), ritratta nel 1840 da Richard Rothwell. All'epoca aveva 43 anni. Nata dalla femminista Mary Wollstonecraft e dal filosofo William Godwin, Mary Shelley iniziò la prima versione di Frankenstein nel 1817, come un gioco per passare il tempo durante una vacanza in Svizzera. L'anno successivo ne pubblicò la prima edizione. Una seconda versione rimaneggiata vide la luce il 1831.